Il coronavirus e la globalizzazione della paura nel pianeta fragile...

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Franco Cimino
  24 febbraio 2020 20:06

di FRANCO CIMINO

La fase che l’umanità sta attraversando la si può considerare, senza alcun dubbio, come una di quelle più difficili degli ultimi due secoli almeno. Potremmo dire anche tra le più drammatiche. Simile a quella prodotta dalle guerre mondiali. Non a caso le richiamo, perché quella di oggi ha che fare proprio con il concetto di mondo, quindi del globale.

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Insomma, della globalizzazione, questo termine violentemente innovativo del dizionario universale, che è rimasto, però, privo o carente di una spiegazione “ eticamente etimologica”, tale per cui potesse essere compreso da tutti gli abitanti la terra. Di guerre, sul pianeta, ce ne sono state, e ancor più numerose oggi ve ne sono. Tutte, però, sono trattate come fatti locali, con svolgimento fisico in posti distanti dal nostro vissuto. Un atteggiamento, questo, che vieppiù alimenta l’egoismo, che ormai da molto tempo è passato da sentimento individuale a comportamento collettivo, atto sociale prevalente.

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“Cosa vuoi che mi importi delle guerre disseminate in tutto il Medio Oriente o in Africa? O di quelle silenziose condotte all’interno dei loro paesi da dittatori contro il proprio popolo, in Africa (specialmente quella che si affaccia sul Mediterraneo), o nuovamente in America Latina? Cosa vuoi che mi importi della strage di civili inermi o di bambini in particolare, nella Siria contesa dai russi e dagli americani, come fosse una piccola colonia della più lontana periferia? E, prima ancora di questo: “cosa me ne viene dalla preoccupazione per la fame crescente nel mondo, la guerra delle guerre, che semina decine di milioni di morti all’anno?”

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Diciamo la verità, per una sola volta almeno: non è questo che, neppure più in segreto, ci diciamo? L’unica “paura solidale” che sembra aver attraversato tutti i confini, è stata prodotta dall’attentato alle torri gemelli in quel tragico 11 settembre 2001, in cui, sotto un inspiegabile attacco aereo, a Manhattan, morirono migliaia di persone e molte di più rimasero segnate a vita dalle profonde ferite subite, non solo fisiche. Fino a quando la forza devastante del terrorismo islamista non fu quasi interamente distrutta, il mondo intero si è sentito coinvolto in una guerra tra le più devastante e pericolose che si potessero immaginare. Cos’è che ci terrorizzò tutti, allora? La morte che recava con sé? No, non solo questo. Ci terrorizzò l’idea che essa potesse colpire, attraverso eserciti invisibili e dediti fino al sacrificio totale dei combattenti, in ogni momento e in ogni luogo e chiunque, quasi fino all’interno della loro privatezza e degli spazi di vita ordinaria.

Nessuna chiamata alle armi, nessuna divisa e nessuno strumento bellico. Soprattutto, nessun campo di battaglia. Tutti noi e i nostri figli sparsi nel mondo a combattere, con la propria morte in agguato, una guerra assurda e non voluta, in alcun modo la si volesse giustificare. Ciò che più di ogni altro elemento ci scosse dal profondo, sconvolgendo (qui la vittoria anticipata degli islamisti impazziti) la nostra vita ordinaria, fu il constatare la fragilità di un pianeta considerato al sicuro per la forza fisica (tecnologia ed economia in primis) in esso cresciuta a dismisura. La globalizzazione non aveva ancora fatto in tempo a mostrare il suo volto feroce sul piano delle ingiustizie sociali e delle limitazioni delle libertà individuali da esso prodotte, che già si mostrava incapace di restare forte rispetto ai pericoli per la vita umana e la libera circolazione delle persone. Bugiarda rispetto alle promesse, in essenza comunque insincere, di un mondo “ felice”, essa sembrava in ginocchio.

Ma, nella psicologia collettiva, furbamente dominata dai poteri realmente forti, tutto rapidamente passò. “Passatu u scantu, passau u periculu” usava dire dalle mie parti. E fu così che nuove promesse del sistema globale riportarono il pianeta a vivere “sereno” facendo finta, nella sua stragrande parte, di non vedere le vecchie guerre degli altri e a chiudere il senso del disgusto rispetto alle morti di altri. Alle prigioni e alle torture degli altri. Alla fame degli altri. Al pianto assordente dei bambini e delle donne degli altri. Le religione, anche quelle più cristiane, sono rimaste sullo sfondo, in attesa che il sistema globale tornasse ad utilizzarle per nuove guerre in nome di Dio, il proprio tra gli altri.

Oggi, improvvisamente, il pianeta si sveglia. La paura atroce lo sveglia, dopo però un lungo mese in cui ha provato a fare ciò che ha fatto in altre situazioni. Arriva, non si sa se tardiva o tempestiva, la notizia che in una regione, per nulla periferica e  pure popolosa, della Cina, un virus sconosciuto stava diffondendosi tra i residenti. Ogni giorno il bollettino medico declina cifre importanti di morti e infettati. Da quella nazione giungono anche notizie dei provvedimenti straordinari assunti dalle autorità. Addirittura, quella che interi ospedali sarebbero stati costruiti in pochi giorni per tentare di curare, in assenza di medicine adatte, i sempre più numerosi cinesi che hanno contratto l’ormai famoso coronavirus. In un primo momento il mondo occidentale si è attestato, moralmente e istituzionalmente, sulle classiche posizioni di neutralismo o di indifferenza, se non di malcelata soddisfazione che questa cosa brutta avesse colpito l’arrogante paese neo-imperialista che, divenuto straricco, stava comprandosi il mondo intero. Forse, questo orgoglio disinvolto o vecchia superficialità cui si prestano normalmente governanti disattenti, ha fatto trovare l’Europa impreparata dinnanzi al pericolo che il virus oltrepassasse i nostri confini.

I pochissimi casi che si sono verificati in Italia, come al solito, hanno diviso il Paese. Sul piano politico, tra maggioranza, che invoca senso di responsabilità, e la parte aggressiva dell’opposizione, che accusa il governo proprio di mancanza di ciò reclama. Sul piano scientifico, tra esperti che eccessivamente tranquillizzano affermando la scarsa pericolosità del virus, addirittura classificandolo a livello di una influenza, e studiosi e operatori sanitari che lo considerano pericolosissimo tanto da invocare misure emergenziali. Misure che le autorità politiche e sanitari stanno già adottando nelle regioni del Nord, pronti ad estenderle in tutto il Paese attraverso una sorta di quarantene “ popolare” e la chiusura per due settimane di tutti gli esercizi pubblici, con danno alla economia facilmente immaginabile.

Tuttavia, questo danno, qui da noi come altrove nel mondo, è nulla rispetto a quello che io chiamo la globalizzazione dell’angoscia. Un intero pianeta che inverta la rotta verso la ricerca della felicità e naviga nelle acque agitate della paura, rischia di bloccarsi nella corsa per il Progresso, il benessere economico e la promessa di ricchezza per tutti. Pure l’antica fiducia progressiva nei confronti della tecnica salvifica è destinata ad affievolirsi, aggravando lo stato di depressione delle popolazioni. Tra paure e tristezza, angoscia e immobilismo, questa palla perfetta che ruota su stessa nel firmamento rischia di “fermarsi”. È bastato un virus d’Oriente, che forse risulterà banalissimo tra alcune settimane, per rivelarci di essere piccoli e fragili. Una semplice infezione, per dimostrare che nessuna potenza può essere al sicuro, nessun potere, che pure resta indifferente al male che talvolta procura, può ritenersi impermeabile alla più normale delle malattie.

C’è chi, tra i teorici del complottismo a tutte le latitudini e della supremazia inarrestabile del poteri ristretti e assoluti, per dimostrare il contrario, lascia filtrare, nelle fessure della comunicazione avanzata, l’ipotesi che la diffusione di questo virus sarebbe una sorta di arma micidiale, che innominabili super potenze hanno lanciato sul pianeta per tenerlo assoggettato. E distrarre così miliardi di persone dalla stato di nuova schiavitù nel quale l’economia mondiale li mantiene, impedendo loro la presa di coscienza che occorra presto rivoltarsi contro il super sistema e rompere le catene della schiavitù, dell’ignoranza e dello sfruttamento. Tesi, questa, molto suggestiva, che personalmente mi affascinerebbe per le mie maturate convinzioni intorno al potere della globalizzazione e delle sue ben note conseguenze.

Ma, oggi, la questione è un’altra, più urgenze e drammatica e, nel contempo, più suscettibile di reale cambiamento. Il pianeta degli esseri viventi non ce la fa più a sopportare il peso delle sue contraddizioni, dei suoi errori e dei suoi delitti contro la vita. Occorre cambiare verso, tornare alla dimensione umana delle cose, rimettendo l’uomo e la vita in ogni sua dimensione, al centro dell’agire umano, restituendo alla Politica il suo ruolo di disegnatore del domani, di costruttore delle utopie. Una Politica che riporti l’economia sotto il controllo democratico e la tecnica sotto il dominio della intelligenza umana che la crea. Tutto ciò senza dimenticare, neppure per un solo istante, che l’economia e la tecnica, come ogni costruzione dell’intelletto e delle mani dell’uomo, hanno un solo fine: l’essere umano, la sua felicità nella esaltazione piena della dignità della vita.

Trarre questa lezione dal coronavirus, è assai utile. Salvifica davvero. Essa può fare molto più bene all’umanità che il vaccino prossimo venturo, che molto presto, ne sono certo, lo debellerà.

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