Il dibattito. L'esperto Stefano Quaglia: "La sfida antropologica e la scuola del dolore"

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Stefano Quaglia, ex dirigente Ufficio provinciale di Verona ed esperto di sistemi educativi
  13 maggio 2020 10:19

di STEFANO QUAGLIA*

«Se Faremo la pace e ci dimostreremo tali quali gli accordi comuni prescrivono abiteremo la città in piena sicurezza, liberi da conflitti e da pericoli e dal turbamento nel quale ci siamo venuti a trovare gli uni verso gli altri d giorno dopo giorno progrediremo nella nostra ricchezza…» (Isocrate, Sulla Pace 20)

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In epigrafe sono citate espressioni dell’Oratore greco Isocrate, tratte dall’orazione Sulla Pace. Non è qui il caso di ricostruire il contesto storico nel quale questa orazione fu scritta, né di impegnarci a individuare meticolosamente eventuali (improbabili) analogie con epoche lontane e molto diverse dalla nostra. Isocrate si riferisce a una situazione post bellica della metà del IV secolo avanti Cristo. Tuttavia, sono giorni che questo passo mi ritorna con insistenza alla mente e mi risuona dentro, come uno ritornello che accompagna le mie continue relazioni in video e in audio con una molteplicità di interlocutori diversi.

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E' quel richiamo forte al rispetto degli accordi che mi inquieta e preoccupa. Togliamo il riferimento alla guerra e leggiamo la frase fuori dal contesto “ Se…ci dimostreremo tali quali gli accordi comuni prescrivono, abiteremo la città in piena sicurezza”: sembra scritta per noi, oggi, in riferimento alla nostra situazione disorientata e inquieta, proprio come al termine di una guerra. Non una guerra “convenzionale”, ma un conflitto silenzioso, particolare, contro un nemico invisibile, sfuggente e perfido, che obbliga non a stringere alleanze e a stare uniti, ma a seguire severe prescrizioni di allontanamento e segregazione. La nostra solidarietà, paradossalmente, in questo caso è consistita nello stare lontani, la nostra unità, nell’isolamento. Su questa conflittualità fra atteggiamenti psicologici e comportamenti da seguire avranno certo da dire e riflettere molto, in futuro, psicologi, psichiatri e psicoterapeuti. Noi guardiamo il panorama sociale, preoccupati, dal nostro osservatorio scolastico.  

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Era inevitabile che il luogo della relazione e dell’unità, della condivisione dello spazio e del tempo per eccellenza, la scuola, fosse investita da questo evento nella maniera più dura e profonda. La scuola è stata colpita da questo nemico, ma non affondata. Ha saputo muoversi, come un sottomarino, silenziosa, ma assidua e attenta, con periscopi continuamente puntati oltre la superficie delle relazioni a distanza, ma guardinga e sempre costretta all’immersione.

E allora quella frase, quel richiamo alle regole, si fa ancora più inquietante e provocatorio. Come stare agli accordi, se, a poco a poco, viene a smarrirsi la consapevolezza di essere un gruppo, una squadra, un insieme che condivide emozioni, esperienze, successi e delusioni? Solo un’ossessiva e costante capacità di credere che vi sia un futuro, un domani nuovo, ci può sorreggere e motivare ancora. E quindi il “mostrarsi tali quali gli accordi prescrivono” significa pensare a come sarà il dopo, a quali saranno le regole e le condizioni che ci consentiranno di ritrovare vita e prosperità.

In questi giorni i vertici ministeriali, la stessa ministra, hanno avanzato ipotesi sulle “regole del ritorno a scuola”, ma abbiamo assistito a una levata di scudi, anzi, meglio, a un fuoco di fila, che ha disorientato chi cerca non tanto lo scontro, ma il dialogo. In sostanza, si è prospettata la divisione dei tempi, considerata l’impos­sibilità di condividere gli spazi. Se dunque qualcuno pensa che si possano occupare nello stesso tempo gli stessi spazi, delle due l’una: o si allargano gli spazi, o … si dimezzano le classi, ma si tratterà comunque di trovare spazi nuovi per classi nuove.

E così scopriamo che la teoria della relatività ha nella dimensione educativa una delle sue più rigorose ed esemplari applicazioni. La continuità spaziotemporale è ineludibile per l’organiz­zazione scolastica. Non si può pensare di intervenire sullo spazio senza che ne sia influenzato il tempo, non si può giocare col tempo senza che ne venga investito lo spazio. Tre sono dunque i protagonisti di questa complessa partita: i soggetti, le aule, i giorni di frequenza. Se dimezziamo i soggetti, possiamo mantenere intatti gli spazi, ma dobbiamo dimezzare i tempi. Posto che raddoppiare gli spazi, per dimezzare i soggetti, non sarà sempre possibile, ne consegue, necessariamente e senza possibilità di fuga, che si lavori sul tempo. Si tratta di decidere dunque (e qui il concetto da scolastico, si fa fisico, da fisica delle onde) la frequenza. è pensabile che si alternino i gruppi di tre giorni in tre giorni? A me pare davvero poco opportuno e antieconomico (in senso funzionale). Posto che dovremo, per garantire continuità e coerenza di sistema, utilizzare entrambe le didattiche DiP (didattica in presenza) e DaD (didattica  a distanza), sarà necessario garantire un’arcata lunga alle nostre architetture temporali. E quindi si prospettano come opportune una frequenza alternata di una settimana, minimo, forse, per la secondaria di primo grado, e comunque di due settimane per il secondo grado. In ogni caso, qualsiasi sia la frequenza delle onde di DiP, il tempo ad essa dedicato sarà di 100 giorni, e di 100 sarà quello della DaD. Non si sfugge a questa regola ferrea. Quindi smettiamola di farci del male e pensiamo a quale sia il miglior tempo di alternanza DiP/DaD.

Il nodo si fa molto più complesso per i gradi iniziali: Infanzia e Primaria. Qui la partita è durissima. La relazione in presenza, almeno  per l’infanzia e per i primi anni della primaria, è condicio sine qua non per l’efficacia dell’azione educativa. Il principio dell’apprendimento mimetico e del coinvolgimento emotivo, funzionale alla assimilazione delle abilità strumentali e alla focalizzazione e fissazione degli schemi mentali che diventeranno il terreno di coltura delle successive concettualizzazioni, non è delegabile alle ICT. Le tecnologie dell’informazione e della comunicazione possono essere piegate alle esigenze dell’istruzione e dell’educazione in contesti nei quali è preponderante il trasferimento di bit e richiedono ai soggetti (ce ne siamo accorti in molti), la forte abilità di trasformare le relazioni a distanza in comunicazione emozionale. Tuttavia, anche nel secondo grado, abbiamo visto come la tendenza dei soggetti più fragili alla chiusura in se stessi e allo “spegnimento” delle video-camere sia frequente e possa essere superata solo mediante il ripristino del vincolo di presenza e l’uscita dal virtuale nel reale, pur con tutti i suoi lati problematici.

Ci giungono in queste ore interessanti notizie su azioni sperimentali tentate da alcuni sindaci della Valsesia per la primaria. Stiamo a vedere. Corre voce anche che non ci sia la benedizione ministeriale e che i sindacati siano perplessi. Noi non prendiamo posizione. Di fronte alla difficoltà ogni tentativo di uscirne va accolto, con prudenza e concretezza, ma senza preconcetti. Il primo passaggio non è la ripresa della scuola, quella, di fatto in fondo, non si è mai interrotta del tutto, grazie alle ICT. Il problema è la con-vivenza, la con-divisione degli spazi e la com-presenza nei tempi. Non sarà facile. E quindi ben vengano tutti i tentativi intelligenti e monitorati, non improvvisati, ma guidati da severo controllo di efficienza ed efficacia. Il passaggio più delicato sarà quello della estensione delle pratiche pilota dai piccoli numeri ai grandi sistemi.  Di sicuro saranno agevolate le zone periferiche e meno frequentate da soggetti esterni. Paradossalmente quello che prima era un problema, oggi si va rivelando come una via di salvezza. Abbiamo poi di fronte a noi importanti precedenti storico-antropologici e su questa base possiamo formulare due ipotesi.

La prima: anche questo virus, come tutti gli altri agenti patogeni naturali, ha una sua curva di evoluzione. Si accende, divampa, si esaurisce. Gli esseri umani, come le foglie di Omero e Mimnermo, bruciano e si consumano, ma non tutti e, alla fine, la vita riprende. Diversa da prima, senza le caratteristiche della società precedente, ma riprende. E’ stato così con le pesti del Trecento e del Seicento, con la Spagnola, l’Asiatica e la SARS. Questo significa che la fragile creatura umana è vulnerabile soggettivamente e individualmente, ma collettivamente ha capacità di reazione tali da resistere al più terribile agente sterminatore. Se non fosse così, dalla comparsa del sapiens sapiens ad oggi, questa terribile creatura non sarebbe riuscita sempre a farla franca.

La seconda: questo virus è più astuto della natura umana. La sfida è, a livello biologico, destinata a vederci soccombere. La creatura uomo deve quindi non utilizzare le sue naturali difese, ma la sua unica e caratteristica prerogativa, ovvero l’intelli­genza. E qui sta il busillis. La scienza non riesce ancora a risolvere le nostre inquietudini, ma non nega la speranza che si riesca a trovare un vaccino, una medicina insomma, un phármakon, mediante il quale esorcizzare anche questa pestifera peste del XXI secolo. E allora si tratta di trovare le forme della resistenza. Tutti gli studiosi di etologia e di antropologia sanno benissimo che solo l’alleanza consente al gruppo di sopravvivere. O meglio due sono i fattori: l’alleanza, per i piccoli gruppi, il numero per i grandi gruppi. Credo che il mio ragionamento sia sufficientemente chiaro: noi non siamo un miliardo e settecento milioni. Non possiamo contare sul numero. Solo uno dei due principi di sopravvivenza può adattarsi a noi. Solo l’alleanza ci potrà salvare. Litigare oggi, quindi non ha alcun senso, anzi è controproducente. Pensare che valgano ancora le leggi del narcisismo politico o dell’eti­chettatura del primato di scelta è un pensiero da pre-coronavirus.

Con alcuni colleghi ieri si discuteva anche dei paradigmi comportamentali impliciti che il linguaggio veicola e ci è risultata evidente persino l’inadeguatezza della similitudine con la guerra. La fase due non è assimilabile all’armistizio e alla pace. Non sono arrivati gli americani a liberarci. La fase due dipende da noi e dalla nostra capacità di rispettare le regole. Non è finito tutto. Anzi, Isocrate decontestualizzato ci ricorda che il difficile comincia ora. Almeno questo trasmettiamo ai ragazzi e facciamolo capire. Se ci salveremo lo dovremo solo a due fattori, necessari nei periodi di crisi: solidarietà e intelligenza. Saremmo ben di dura cervice se nemmeno il dolore ci avrà insegnato questo. Anche di questo dovremo far tesoro. Il futuro comincia già a farsi sentire.

* Già Dirigente dell’Ufficio Scolastico Provinciale di Verona, esperto di sistemi educativi

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