Il filosofo Salvatore Mongiardo racconta la storia dei Lacini

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Salvatore Mongiardo
  07 novembre 2022 14:55

di SALVATORE MONGIARDO*

I luoghi della memoria

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Ai tempi della mia infanzia, intorno al 1950, il freddo invernale pungente era chiamato freddo di Lacina, nome dell’altipiano sito a circa 800 metri s.l.m. e compreso attualmente tra vari comuni: Badolato, Isca, Sant’Andrea, San Sostene, Cardinale, Torre di Ruggiero, Simbario, Brognaturo, Spadola e Serra San Bruno. Il suo punto più caratteristico si trovava nel vasto e leggero avvallamento compreso tra Cardinale, San Sostene e Sant’Andrea, il mio paese natale. Circa quaranta anni fa, quella distesa fu coperta da un lago artificiale, chiamato impropriamente Invaso dell’Álaco. Da lì sorgeva e sorge ancora il torrente perenne chiamato Álaca, chedivide i due comuni di Sant’Andrea e San Sostene. 

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In estate gli abitanti dei paesi vicini facevano scampagnate nei folti boschi ai lati della distesa, che era punteggiata al centro da due ontani e da un mini-laghetto tondeggiante, chiamato Gran Gurno, cioè grande pozza. In realtà esso era una  bocca vulcanica, che eruttò fango caldo nel grande terremoto della Calabria del 1783. Tanto mi raccontava il nonno materno Bruno Codispoti (1878-1958), che lo aveva appreso da lunga tradizione orale. Quel sito era frequentato dai pastori, che vi conducevano le pecore per il pascolo estivo, dai contadini, che vi coltivavano il grano, e da guardiani di vacche.

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Il nome di Lacina è usato dalle popolazioni circonvicine da epoca immemorabile. Difatti, Il fiume Ancinale, che sbocca cinque km più a nord dell’Álaca, davanti a Soverato, deriva il suo nome dall’aggettivo Lacinale, perché le sue sorgenti sgorgano nel territorio di Serra e le sue acque si ingrossano con 
l’apporto di piccoli affluenti della Lacina. Il nome di Álaca, come lo stesso nome di Lacina, potrebbero derivare entrambi dal greco lakkos, stagno o pozza, parola ancora usata in andreolese come laccu. Nel Comune di San Sostene, subito dopo il ponte dell’Álaca sulla SS 106 andando a Soverato, esiste sul lato monte una località chiamata Lacco o Lacchetto, che presumibilmente hanno la stessa origine. Al riguardo vedi pagina 511 del Dizionario Andreolese-Italiano di Enrico Armogida.


Sotto:
Mappa dell’Istmo Squillace-Lamezia o Gola di Marcellinara, lungo circa 32 km, e del Golfo di Squillace, che va da Monasterace a Capo Rizzuto (km 120). Circa 20 km più a nord, si trova Capo Lacinio (Lakinion Akron), il quale a sua volta dista da Crotone 12 km. Capo Lacinio è chiamato anche Capo Colonna dall’ultima colonna rimasta del tempio di Hera Lacinia. La macchia azzurra vicina a Serra San Bruno è l’Invaso dell’Álaca. 


Origine dei Lacini

Per capire l’origine del popolo dei Lacini bisogna fare un salto indietro di milioni di anni, quando parte della Calabria attuale si staccò dalla Sardegna-Corsica e si unì al complesso dell’Appennino meridionale. L’Istmo Squillace-Lamezia, la parte più stretta della penisola italiana, è uno dei punti di unione del blocco 
proveniente dalla Sardegna-Corsica. Essendo pianeggiante, l’Istmo ha favorito il fenomeno raro della fruttificazione perenne nelle terre circonvicine. Difatti, in ogni mese dell’anno nascono e crescono frutta, foraggi, legumi, cereali, verdure, castagne, olive, agrumi, funghi, erbe e bacche commestibili di ogni sorta. Questo deriva dallo scambio termico originato dai venti caldi di scirocco che provengono da sud-est, da Squillace, e quelli freschi di ponente, che spirano da ovest, da Lamezia. Senza questo corridoio dei venti, se cioè l’Appennino fosse stato ininterrottamente alto e compatto, i venti sarebbero rimasti bloccati nei due versanti jonico e tirrenico senza mescolarsi. Invece, lo scambio termico genera nelle vicinanze dell’Istmo una piovosità più abbondante che nel resto della Calabria.

La presenza umana in Calabria risale almeno a 700.000 (settecentomila) anni a.C., come testimoniano i manufatti trovati nei pressi del Lago Ampollino (Cosenza) e a Casella di Maida (Catanzaro), manufatti attribuiti a ominidi vissuti molto prima dell’homo sapiens, comparso intorno a 300.000 (trecentomila) anni a. C. Nella Grotta del Romito di Papasidero (Cosenza), il bue primigenio delineato sulla roccia risale a 12.000 (dodicimila) anni a. C., mentre le tombe all’interno della Grotta risalgono a 22.000 (ventiduemila) anni a. C., date stabilite dai ricercatori dell’Università di Firenze. 


Graffito del bos primigenius nella Grotta del Romito


 
Distacco dalla Sardegna-Corsica e rotazione della Calabria verso sud
 

Dalla natura ai popoli

La natura è stata particolarmente benevola e generosa in quella zona di Calabria, offrendo condizioni geografiche e climatiche favorevoli che hanno plasmato a loro volta una popolazione benevola e generosa. Difatti, quando intorno al 10000 (diecimila) a.C. nacque l’agricoltura, le donne guidavano i popoli tra cui i neolitici Lacini. Non c’erano armi né guerre, si viveva in comunità di vita e di beni e 
si praticava quotidianamente lo scambio dei doni. Attorno a tutto il Golfo di Squillace sopravvivono ancora oggi nomi e toponimi che indicano concordemente la presenza dei Lacini lungo il golfo e nell’entroterra, presenza ulteriormente confermata da usi e costumi come la tradizione del Bue di Pane. 

Seguiamo come guida il Bue di Pane per scoprire il popolo dei Lacini cominciando da Spadola (VV), l’unico paese dove la tradizione del Bue è sopravvissuta ininterrottamente dal mondo arcaico fino a oggi. Difatti, quel Bue viene infornato e regalato in forme grandi e piccole due volte l’anno, la prima domenica di agosto e il 6 dicembre per la festa del protettore San Nicola. Ai bordi di Spadola c’è una magnifica montagna alberata, chiamata Torello - nella quale si trova la tenuta del Prof. Giuseppe Nisticò -, nome che richiama il legame tra i Lacini e il toro. A Monasterace Marina l’uso, abbandonato circa cinquanta anni fa, si è ripreso infornando il Bue di Pane col primo grano raccolto. Sempre a Monasterace vivono diverse persone di cognome Taverniti, da sempre soprannominati i Lacini, che di mestiere erano mietitori di grano, e c’è inoltre una famiglia che porta il  cognome di Torello.

Anche a Badolato c’era la tradizione del Bue, ’a vaccarera ’e pana, abbandonata circa cinquanta anni fa, ma ben ricordata dalle persone anziane, come ho personalmente verificato. Confinante con Soverato poi, c’è il Comune di Montauro, il cui nome richiama il toro. Ci sono altre ipotesi (Aldo Mercurio) che non convincono sull’origine del nome di Montauro dal greco myntha+bryon, territorio ricco di menta, perché nel dialetto locale si dice Muntàvuru, e tàvuru significa unicamente toro. A poca distanza da Montauro si erge sul mare tra Stalettì e Squillace lo scoglio di Copanello, da Cassiodoro chiamato Mons Moscius, vicino al 
quale egli fondò il Vivarium per la preservazione della cultura antica dopo la caduta  di Roma. In latino moscius non significa nulla, mentre in greco moschos significa vitellino o giovane toro. Il toro era venerato dall’India all’Egitto, dove era molto onorato il Bue Api, e a Creta c’era il culto del toro e il mito del Minotauro. Inoltre, la prima lettera dell'alfabeto fenicio ed ebraico àleph (bue), alfa in greco e àlif in arabo, 
originariamente era una testa di bue stilizzata. Il bue era particolarmente stimato nella Calabria arcaica, perché tirava l’aratro per preparare il terreno per la semina del grano. Tutti questi toponimi che richiamano il vitellino o toro confermano la tesi dei vari autori antichi, che fanno derivare il nome di Italo e Italia da viteliu, termine di origine preitalica. Nella religione induista poi, Nandi, il toro bianco è la cavalcatura del Dio Shiva. Vedi foto sotto.


Presenza dei Lacini in tutto il Golfo di Squillace

Tutte queste indicazioni confermano che le coste e l’entroterra del Golfo da Caulonia fino a Capo Lacinio, erano abitati dai Lacini già millenni prima della colonizzazione greca. Sulla loro presenza abbiamo precisi riferimenti degli storici antichi come Diodoro Siculo di lingua greca e Ovidio di lingua latina. Essi sono 
concordi nell’affermare che Kroton, il fondatore di Crotone, aveva sposato Laurete o Laureete, figlia di Lacinio o Lacino, come del resto facevano i coloni greci, che erano solo maschi e sposavano le donne del posto. Un’altra testimonianza precisa ci viene dal filosofo neoplatonico Porfirio (233-305 d. C.), di lingua greca, lo stesso che scrisse il famoso libro delle Enneadi che contiene la dottrina esposta dal suo 
maestro Plotino. Egli scrisse anche una preziosa Vita di Pitagora, nella quale parla di interi villaggi circonvicini a Crotone, i quali con capi, mogli e figli si recarono ad ascoltare Pitagora (590-500 a. C.). Riporto il testo del capitolo 20: Con una sola lezione fatta quando sbarcò in Italia, Pitagora conquistò con le sue parole… più di duemila ascoltatori, tanto che non tornarono più in patria, ma insieme con i figli e le mogli costruirono un’enorme sala di riunione e fondarono quella che è da tutti detta Magna Grecia in Italia e, ricevuti da lui leggi e precetti come divini suggerimenti, non facevano niente al di fuori di questi. Essi misero anche in comune i loro beni…

Dove si trovava la Scuola di Pitagora

La vicenda pitagorica non è stata finora capita perché gli avvenimenti riportati dagli storici antichi non sono stati presi in seria considerazione al punto che forse, a parte me e qualche altro sconosciuto, nessuno legge le loro opere con la dovuta attenzione. Difatti, dopo il suo arrivo nel 532 a. C. a Crotone e i trionfi iniziali, i Crotoniati non accettarono le proposte di Pitagora di condurre la vita in comunità conferendo i loro beni. Invece, quei duemila che andarono ad ascoltarlo, si sentirono dire dal più famoso dei Greci che il loro modo di vivere in comunità di vita e di beni era… il migliore. Decisero allora di costruire un nuovo insediamento e una grande sala nel territorio dei Lacini, a Capo Lacinio, che poteva contenere seicento persone per le lezioni del maestro.

E' fuorviante e sbagliato dire che la Scuola di Pitagora era a Crotone: era a Capo Lacinio, dove lui e i suoi allievi vivevano in comunità con i Lacini, e dove allievi e allieve vi affluivano da Crotone e anche da molto lontano. Pitagora pertanto ebbe largo seguito tra allievi provenienti da Crotone, i quali influenzarono fortemente le decisioni politiche della loro la polis. Nacquero allora inimicizie contro Pitagora al punto che Cilone, uno dei maggiorenti di Crotone, organizzò una congiura e molti pitagorici furono uccisi, la Scuola fu incendiata e Pitagora stesso si salvò rifugiandosi a Caulonia, attorniata da Lacini. Poi, quelli di Capo Lacinio insorsero e uccisero parecchi congiurati di Crotone, che lasciarono insepolti. 

L’etica diventa scienza esatta

Il Bue di Pane costituisce la prova che Pitagora inserì nel suo insegnamento elementi dei Lacini. Porfirio scrive testualmente che egli infornò un Bue di Pane (cap. 36) e lo offrì agli Dei per ringraziarli della scoperta del suo famoso Teorema del triangolo rettangolo. Questo era già conosciuto in Egitto come triangolo sacro: se i lati di un triangolo erano 3 e 4 e l’ipotenusa 5 della stessa unità misura, oppure dei loro multipli, si otteneva sempre un triangolo rettangolo. In Calabria si usa ancora oggi nei cantieri edili la tecnica dello squadro per tracciare gli angoli retti delle fondamenta di un edificio. Si procede così: si misurano con la rolletta tre metri sul terreno, poi quattro ad angolo col primo, poi si chiudono con l'ipotenusa di cinque metri e automaticamente si forma un triangolo rettangolo. La scoperta di Pitagora fu che in qualsiasi triangolo rettangolo contenente un angolo retto, con lati e ipotenusa di qualsiasi dimensione, si ottiene sempre, come nel triangolo sacro, l’equivalenza tra la somma dei quadrati costruiti sui due lati e il quadrato costruito sull’ipotenusa.

Pitagora aveva appreso matematica e geometria a Mileto presso Talete, (630-545 a.C.), dove si recò all’età di diciotto anni (Giamblico, Vita pitagorica - capp. 11-12-13). Talete è conosciuto per alcuni teoremi di geometria, come quello del Fascio di Rette Parallele. Egli trasmise al diciottenne Pitagora la dieta vegetariana che Pitagora osservò e raccomandò per tutta la vita, ma non la impose agli altri: egli si 
asteneva dalle carni, ma permetteva che gli altri le mangiassero.

La conversione di Pitagora

L’offerta del Bue di Pane implicava il rifiuto del sacrificio di sangue, che, secondo Pitagora, era la matrice della violenza. Alcune sue massime erano: Se non uccidi l’animale, mai ucciderai l’uomo. La pace nasce dal rispetto della vita degli animali. Inoltre, collegando l’offerta del Bue alla geometria, egli elevò l’etica a
scienza esatta, che non può essere messa in discussione: esiste una sola etica, un solo modello di comportamento valido per la persona, la famiglia, la comunità, la politica, la religione e perfino gli Dei. Difatti, dopo Mileto egli soggiornò ventidue anni in Egitto, dove conobbe il Dio Osiride, il più amato dagli Egizi perché benevolente e generoso verso i suoi fedeli, mai violento. Il Dio greco Giove, invece, 
ingannava le donne presentandosi come cigno o pioggia d’oro e uccideva col fulmine. Porfirio scrive (capp. 16-17) che Pitagora si recò a Delfi, dove la Pizia, la sacerdotessa di Apollo, aveva predetto la sua nascita ai genitori quando sua madre Partenide ancora non sapeva di essere incinta. Ebbene, Pitagora incise sulla roccia che lì era morto e sepolto Apollo, quel Dio crudele che aveva scuoiato vivo Marsia
perché costui aveva osato sfidarlo a una gara di musica, in cui Marsia suonava il flauto e Apollo la lira. 

Si fermò poi a Creta, dove Zeus neonato era stato nascosto dalla madre Rea in una grotta per salvarlo dal padre Crono che voleva mangiarlo, e sulla parete della grotta Pitagora incise che lì Giove era morto e sepolto. Insomma, quel Pitagora che percepiva la musica delle stelle, poneva le fondamenta di una sola etica universale che possiamo paragonare alla legge di gravitazione che governa l’universo. Quel 
messaggio di Pitagora, che ora finalmente noi abbiamo capito, non fu compreso da Platone né da Aristotele, i quali scrissero che gli schiavi erano necessari come forza lavoro e perciò la libertà poteva essere loro negata. Le stragi e il mal di vivere dell’umanità nei millenni passati e ancora oggi dimostrano che i cinque principi del Pentalogo, come noi l’abbiamo chiamato, sono leggi di natura che non possono 
essere cambiate, e che sono: 1. libertà, 2. amicizia, 3. comunità di vita e di beni, 4. dignità della donna, 5. vegetarismo. La non osservanza di quei principi porta guerre, angoscia, distruzione. 

La nascita dell’agricoltura

Facciamo un altro viaggio indietro fino al periodo neolitico (10000-3500 a. C.), che vide la nascita dell’agricoltura, e prendiamo come guide l’antropologia e l’etica. L’archeologia, molto progredita con le moderne attrezzature, riesce a datare e descrivere il passato con sorprendente precisione, ma rimane sempre all’esterno del fenomeno umano, quello che a noi maggiormente interessa. All’archeologo 
interessa una spada o un corredo antico per determinarne l’epoca, lo stile e la provenienza, mentre a noi interessa sapere se la persona sepolta con la spada abbia vissuto bene o male, da quali passioni o paure era mossa e come si situava nel processo evolutivo umano. Con la coltivazione dei cereali, e in particolare del grano, le popolazioni neolitiche dell’Antica Europa abbandonarono la caccia e 
l’allevamento transumante per diventare agricoltori stanziali.

Le comunità erano guidate dalle donne, la vita e i beni erano in comune, non c’erano armi né guerre, 
la paternità era ignorata perché non si conosceva il rapporto di causa ed effetto tra procreazione e sesso, il quale si praticava come una festa collettiva. Poi la Grande Dea o Grande Madre decideva quale figlio mandare alle donne: vigeva insomma il sistema matrilineare e matriarcale.
 

Palazzo di Cnosso, Creta, donne in festa (1700 a. C. circa)

L’Antica Europa secondo Marija Gimbutas (1921-1994) che comprendeva l’Italia 
meridionale e la Grecia con le rispettive isole, Albania, Romania, Ungheria, 
Jugoslavia e Ucraina meridionale.


L’Età dell’oro

Quell’età felice di cui scrissero molti poeti antichi non era una favola, ma il ricordo di un’epoca realmente esistita fino all’arrivo degli Indoeuropei, che provenivano dalle steppe del Volga e del Caucaso. Le ricerche antropologiche e archeologiche confermano che, alla fine del 4000 (quattromila) a. C., essi 
scoprirono il rame col quale forgiarono le prime armi. Poi, in groppa ai cavalli della steppa, che avevano addomesticato, invasero a varie ondate successive e in ogni direzione le popolazioni neolitiche che ignoravano la guerra. Gli Indoeuropei, invece, praticavano la guerra e la schiavitù ed erano guidate da capi, i quali alla morte erano sepolti, assieme ai componenti del loro seguito vivi, nelle grandi tombe 
a tumulo chiamate kurgan, dal nome della città attuale di Kurgan nella Russia meridionale, dove sono state scoperte. Essi arrivarono anche in Grecia e nel Nord Europa: i biondi Achille, Menelao, Elena e i coloni greci dell’Italia meridionale discendevano da quegli Indoeuropei, come lo furono anche i Vichinghi e gli Anglosassoni. 

Diffusione degli Indoeuropei

La nascita dell’Italia

L’invasione indoeuropea ebbe difficoltà ad arrivare nelle isole greche e nel Sud Italia a causa della loro lontananza, e solo intorno al 1500 a. C. Atene achea, cioè guerriera, sottomise Creta minoica, cioè neolitica e pacifica. Di derivazione indoeuropea erano anche i coloni greci Enotri, Ausoni, Coni e Peucezi, che, secondo Aristotele (382-322 a. C.) e Dionigi di Alicarnasso (60 -7 a. C.), si stanziarono nel Sud 
Italia diciassette generazioni prima della guerra di Troia, cioè intorno al 1700 a. C., mille anni prima della fondazione di Crotone, Sibari, Locri e Reggio. Gli Enotri vivevano arroccati sulle alture, erano gente d’armi e sposavano le donne del posto che continuavano però a vivere a modo loro, cioè libere, non relegate nei ginecei come si usava in Grecia: perciò le giovani di Crotone andavano liberamente alla scuola di Pitagora. I Greci si riempivano la bocca di libertà, che volevano solo persé, ma non per i moltischiavi che essi sfruttavano. Italo, uno degli Enotri di quella prima colonizzazione, unì i suoi Enotri agli abitanti locali dell’Istmo, che vivevano nell’abbondanza grazie a un’agricoltura florida, e così nacque l’Italia che Diodoro Siculo (90-27 a. C.) chiamò Prima Italia (Prote Italìa) stabilendo i sissizi 11 (dal greco syn-sitein), i banchetti comunitari ai quali tutti partecipavano.

Il termine sissizio è usato ancora oggi in Grecia per indicare una mensa gratuita scolastica o militare. A me sembra che Italo fondasse l’Italia sui sissizi non tanto per mangiare assieme, ma soprattutto perché quei banchetti favorivano la conoscenza, la frequentazione e l’unione dei suoi Enotri con le comunità locali. È da notare che le migrazioni dei Greci verso il Sud Italia sembrano cominciate ancora molto prima di quel 1700 a. C., poiché recenti indagini genetiche condotte in Calabria dall’Università di Bologna, in uno studio coordinato dalla professoressa Donata Luiselli con la partecipazione della biologa Rosalba Petrilli, 
mostrano una certa affinità tra gli abitanti della Bovesia (la zona della Calabria attorno a Bova, detta grecanica) e gli abitanti delle Isole Cicladi della Grecia. Lo studio indica che i legami genetici tra l’Italia meridionale e la parte meridionale della penisola balcanica, Creta ed Isole dell’Egeo, risalgono fin al periodo neolitico e post neolitico. [Sarno, S., Petrilli, R., Abondio, P. et al. Genetic history of Calabrian Greeks reveals ancient events and long term isolation in the Aspromonte area of Southern 
Italy. Sci Rep 11, 3045 (2021). Per i dettagli vedi: https://doi.org/10.1038/s41598-021-82591-9

Nascita della Magna Grecia

Pitagora (590-500 a. C.) arrivò a Crotone nel 532 a. C. circa, quasi a sessanta anni di età, dopo aver vissuto per quaranta anni in giro per il mondo alla ricerca della società ideale. Ma non la trovò in Grecia né in Egitto e né in Mesopotamia, e così decise di tornare a quel posto che tanto gli era piaciuto quando suo padre Mnemarco lo portò ragazzino a Crotone durante un viaggio di lavoro. Quei luoghi gli rimasero impressi per il modo di vivere degli Italioti, la stirpe nata dall’incrocio tra coloni greci e donne italiche. Gli storici antichi notarono l’assenza di schiavi a Crotone, e quei pochi schiavi che in qualche modo vi arrivarono, furono liberati e i loro ceppi di piombo sono ancora esposti nel Museo Archeologico Nazionale di Crotone. Magna Grecia viene chiamato oggigiorno tutto il Sud Italia, il che denota quanto forte e vivo sia ancora l’apprezzamento di essa, ma storicamente le cose andarono diversamente. Porfirio scrive (cap. 20) che Magna Grecia in Italia si chiamava allora solo la Calabria, dove l’Italia era nata. Più dettagliatamente scrive Giamblico (Vita pitagorica, cap. 166): In virtù di queste pratiche di vita accadde che tutta l'Italia si riempì di filosofi; e mentre prima quella regione non aveva goduto di nessuna considerazione, più tardi, grazie a Pitagora, ricevette il nome di Magna Grecia e vi nacquero in gran numero filosofi, poeti e legislatori. 

Magna Grecia, cioè Grande Grecia, fu un nome dato unicamente per due motivi: 1 - la vita irreprensibile dei pitagorici; 2 - l’altezza della loro filosofia, termine coniato da Pitagora, che significava amore per la sapienza, intesa come quanto dava sapore alla vita aiutando a vivere bene. Quel nome prestigioso, che in greco era Megale Hellàs, non derivava quindi dall’abbondanza dei raccolti né dai templi e dai monumenti che in Grecia erano più numerosi e più importanti.

Colonie greche nel Sud Italia e Sicilia
 

Diffusione del nome Italia

La diffusione del nome di Italia avvenne in tre fasi. La prima comprese tutto l’Istmo o Prima Italia, la seconda tutta la Calabria e la terza l’intera penisola, avanzando parallelamente lungo i due versanti jonico e tirrenico. L’imperatore Augusto (63 a. C.-14 d. C.) nel 7 d. C. impose il nome di Italia a tutto il territorio da Reggio alle Alpi. Per i Romani era indiscutibile il prestigio di Roma, e tuttavia nessuno degli imperatori romani né il Senato vollero chiamare la penisola con un nome che rispecchiasse il potere di Roma: il prestigio del nome Italia era più alto. Da allora il nome di Italia rimase immutato, nonostante la caduta 
dell’Impero, anzi si estese a Sicilia, Sardegna e Corsica, e tale rimase durante le invasioni barbariche, la nascita dei Comuni medievali, le signorie rinascimentali, i vari regni e i possedimenti della Chiesa, fino alla unificazione dello Stato del 1861. 

L’Italia, però, oltre all’arte e alla cucina nelle quali è maestra indiscussa, ha creato anche il Made in Italy Etico, destinato a diffondersi come altri usi civili e religiosi nati in Calabria. Difatti, i sissizi si diffusero in tutto il Mediterraneo fino a Creta e all’Egitto e, nella forma di cena rituale stabilita da Pitagora, arrivarono nel mondo ebraico, come dimostra l’Ultima Cena di Gesù. Il pane rotondo, poi, usato ancora oggi in 
Calabria, diventò l’ostia bianca nel culto cattolico della messa: ciò deriva dal rito di adorazione del sole nascente che Pitagora e i suoi praticavano a Crotone. 

La decadenza della Calabria

Ho contato venti occupazioni e dominazioni straniere della Calabria dalla colonizzazione greca fino a oggi: 1 - Alessandro il Molosso, re d'Epiro; 2 - suo nipote Pirro con gli elefanti; 3 - i Bruzi; 4 - i Siracusani con Dionisio; 5 - Annibale, arrivato con un solo elefante e acquartierato a Capo Lacinio per otto anni; 6 - Spartaco con gli schiavi; 7 - i Romani; 8 - Alarico con i Goti; 9 - i Longobardi; 10 - gli Arabi; 11 - i Bizantini; 12 - i Normanni; 13 - gli Svevi; 14 - gli Angioini; 15 - gli Aragonesi; 16 - gli Spagnoli; 17 - i Borboni; 18 - i Francesi; 19 - gli Austriaci; 20 - i Piemontesi. Solo per fare un esempio, il famoso centro culturale del Vivarium, eretto da Cassiodoro a Squillace, ebbe vita breve perché fu distrutto dai Longobardi. Penso 
che nessun altro posto al mondo abbia avuto un numero così alto di dominazioni straniere come la Calabria. Tutti pensano che ciò derivi da sfortuna o incapacità dei Calabresi, che, invece di resistere agli stranieri, si lasciavano invadere. Io sono convinto che la decadenza della Calabria, anche se dolorosissima, sia stata decisa da quella che Pitagora chiamava theia prònoia, divina preveggenza.

Quella decadenza ci ha aperto gli occhi, dimostrando con l’evidenza dei fatti che l’etica universale del Pentalogo è il solo modo per una vita felice e un mondo in pace. Il fatto che quell’etica sia identica a quella predicata da Cristo, è un argomento esposto nei miei libri: Cristo ritorna da Crotone
https://drive.google.com/file/d/1DWq_gQnPsut8eRPcahQ3-VPy4ZJeyo2A/view?usp=sharing
Il Pentalogo di Pitagora https://drive.google.com/file/d/1C1Yaeh7y233RenHQJDKhvM4xfIwSh7-
B/view?usp=sharing Destino emozionale dell’universo https://drive.google.com/file/d/1Iw3llzJkVKI4jcVY7sY2-gAHtbvPoT_2/view?usp=sharing

Un altro esempio di cattiva comprensione della storia fu l’occupazione del Sud Italia e della Calabria operata dai Normanni, largamente lodati dagli storici di vista corta: praticamente tutti. In verità i Normanni scongiurarono l’invasione araba, ma ci lasciarono un regalo avvelenato: il regime feudale della servitù della gleba, durato circa ottocento anni, che ridusse in schiavitù il popolo che aveva creato la libertà. La decadenza fu rovinosa e appare ancora irrimediabile, ma le cose non stanno così. Nascita continua dell’Italia La Calabria è giudicata severamente, anche da non pochi Calabresi, come l’ultima regione d’Europa per l’inefficienza e l’arretratezza che hanno costretto milioni di suoi figli ad emigrare.

Nella mia visione, invece, quell’emigrazione era necessaria per fare il grande salto evolutivo che l’umanità attende da millenni: non è la Calabria che deve adeguarsi al mondo moderno, ma è il mondo intero che deve adeguarsi al modello etico formatosi in Calabria. Il Golfo di Squillace non è un territorio grande, ma è profondamente intriso di valori etici ed energie mentali che attrassero Pitagora a Capo Lacinio; San Bruno a Serra; Cassiodoro a Squillace e Campanella a Stilo. A questi vanno aggiunti Gioacchino da Fiore, San Francesco di Paola e Bernardino Telesio, formidabili promotori dell’etica con le loro opere e la 
loro vita, ispirata ai principi italici e pitagorici. Il loro insegnamento è definito utopia, cioè un sogno che non si realizza in nessun luogo (ou-topos) e i letterati riconoscono che l’utopia è tipica della cultura calabrese.

Secondo me, invece, bisognerebbe parlare di pantopia (pan-topos), cioè il sogno che si realizza in tutti i luoghi. Quello che appare sogno irrealizzabile, in realtà è il richiamo alla passata l’Età dell’Oro, del cui ricordo la Calabria è gelosa custode. La scoperta dell’etica universale come scienza esatta, costituisce il punto più alto di un percorso millenario finalmente chiarito: una nuova civiltà sorge ora dalla Calabria, dove sono nate Italia e Magna Grecia. Il Cammino dei Lacini Nel 2020 abbiamo aperto il Cammino della Prima Italia dal Jonio al Tirreno, e nel 2023 apriremo il Cammino dei Lacini per far emergere l’etica universale a beneficio dell’umanità".

*Filosofo

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