di FELICE FORESTA
La Calabria è la mia terra.
Non so perché sorridesse quel giorno, mio nonno. Mentre io mi dondolavo a cavallo delle sue gambe che avevano guidato i suoi vent’anni sulle pendici accidentate del Carso. A schivare l’insulto della guerra, e a immaginare che esista un alito di vita oltre il confine.
Sono passati tanti anni dai vent’anni di mio nonno, e anche dal calore del suo sorriso adagiato tra le guance del mio io. L’uomo rimane sempre un impasto di fango e pane. Io, però, ci credo ancora. Forse perché mi nonno mi ha insegnato ad amare la terra, e la terra è una culla generosa per i mandorli e le emozioni. E la mia terra, la nostra terra, è la Calabria.
Basta togliere la crosta, allora, e poi scendere laddove sono scritti a matita i confini della nostra anima. Tocca a noi capire, però, se sia meglio l’inganno della polvere, o le crepe di un pezzo di pane da ricamare con un filo d‘olio. E su cui montare a neve il lievito di un domani che si faccia altare di un’umanità ritrovata. Di un’identità che non è smarrita. Ma solo offesa. Non so perché. Ma da quel giorno, da quando mi dondolavo a cavallo delle gambe di mio nonno che avevano guidato i suoi vent’anni sulle pendici accidentate del Carso, io non ho cambiato idea. Qualunque cosa accada. Anche se è caduta. Anzi, ancora di più adesso che è caduta. La Calabria è la mia terra. Lo devo per quel sorriso di mio nonno.
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