di DOMENICO BILOTTI (*)
Quando un'inchiesta su una potente cosca reggina coinvolge esponenti politici di entrambi gli schieramenti, ci si aspetta che volino stracci e si sollevi lo sdegno. È successo solo in parte, dopo il blitz che ha coinvolto la famiglia Libri e le sue vaste cointeressenze politico-imprenditoriali. Più che le ragioni giudiziarie dell'indagine da cui avvia il procedimento, allora, è forse utile interrogarsi su questo deficit di stupore, che segnala una società civile non più cinica, ma certo più fragile. La delegittimazione delle amministrazioni pubbliche è cominciata molto tempo addietro: non la ha generata l'antipolitica o la retorica, spesso poco costruttiva di alternative concrete, del "rifiuto della casta". È stato anzi più vero il contrario: è asceso chi prometteva di far "tabula rasa" proprio perchè incrociava strumentalmente un diffuso umore di sfiducia.
In Calabria il sentire comune non era e non è diverso. Anzi, esso interseca peculiarmente il piano del ripiegamento e della rassegnazione. Le statistiche sono impietose e la demografia e l'economia precedono la politica, senza riuscire a orientarne davvero l'operato. La desertificazione dei paesi procede a tappe forzate, lasciando peraltro il territorio sguarnito dei presidi minimi di manutenzione e salvaguardia ambientale. In quindici anni ha lasciato il Sud l'equivalente della popolazione napoletana. Il vuoto di alternative e di idee rende facile il lavoro a chi gestisce i cordoni della borsa, chi ha in mano (lecitamente o meno) liquidità e potere.
La presenza 'ndranghetistica ha poi da decenni una sua tipicità nei tessuti dell'amministrazione e dell'economia. Nel Reggino l'istituzione della "Santa" ha reso possibile la contestuale appartenenza agli alti gradi delle consorterie 'ndranghetistiche e a quelli delle logge deviate e forse tra qualche anno ci toccherà redigere un bilancio di sistema storico-giudiziario su quale delle due parti dell'accordo se ne sia più avvantaggiata. Nel Catanzarese l'apparentemente pacifica situazione del centro (una sorta di bolla spesso schermata dai fatti di sangue più eclatanti) non ha impedito ai vicini sodalizi ionici di fomentare appetiti nel settore degli appalti pubblici. Nel Cosentino l'elevato numero di collaborazioni di giustizia, genuine o meno che fossero, sembra aver storicamente avvicendato i vertici dei clan più della stessa azione repressiva dello Stato - e anche su questo, tra qualche anno, bisognerà tornare a ragionare.
Il quadro è insomma quello di una realtà mafiosa che si è evoluta molto più duttilmente e pragmaticamente delle istituzioni politiche che sono ormai percepite come curatrici fallimentari di pezzi di consenso. È anche stucchevole e mediaticamente violento parlare di un "modello Reggio" (come un tempo si parlò di un "modello Gioia Tauro", un "modello Amantea" e chissà quanti modelli hanno ballato lo spazio di una stagione di locandine).
Per l'edificazione simbolica di questi "modelli" è stata del resto determinante quella parte di associazionismo antimafia che più ha alzato i toni e la reclame del suo spettro d'azione e meno ha contestualizzato i presupposti materiali dell'agire mafioso. È in altre parole più comodo e semplice invocare un generale repulisti, magari additando tutte le compagini sociali che non si riconoscono in un orizzonte così indistinto, che visionare sul campo gli ambiti dove la presenza mafiosa ha scavalcato ogni forma di legittimazione pubblica.
L'elevata compromissione di una parte della classe politica col crimine organizzato nasce da un vuoto etico che è soprattutto vuoto di formazione e cultura. L'agire pubblico esiste solo come funzione e finzione di ben più lucrativi interessi privati; lottare per la qualità dell'istruzione, del lavoro, del reddito, della partecipazione, diventa un'appendice. Non muove denaro e non muove immagine, non gratifica, non arricchisce. Ed è ormai una politica priva di riferimenti a chiedere l'intercessione del voto e del potere mafiosi: saltate le casematte della vita comune, chi muove più interessi vince. E per conservare quegli interessi ammorba anche l'aria che si respira.
(*) professore di "Diritto e Religioni" e di "Storia delle Religioni" presso l'Università Magna Graecia di Catanzaro
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