"In viaggio con Obama", la campagna elettorale del 2008 nell'emozionante racconto di Paravati. Domani la presentazione del libro negli Usa (VIDEO)

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images "In viaggio con Obama", la campagna elettorale del 2008 nell'emozionante racconto di Paravati. Domani la presentazione del libro negli Usa (VIDEO)
Francesco Paravati e Barack Obama
  03 dicembre 2019 01:24

Di EDOARDO CORASANITI

Quattro novembre 2008: Barack Obama sale sul palco e saluta migliaia di supporter che lo hanno aspettato, “Hello Chicago”.
E’ una delle sue frasi più famose, è la sua prima frase da 44° presidente degli Stati Uniti d’America.
Dopo “Yes we can” che ha fatto emozionare e sognare il mondo, il candidato dei democratici ce l’ha fatta, diventando il primo “Commander in chief” nero dello Stato a stelle e strisce.

Nel pubblico, a pochi passi da Barack Obama, c’è un italiano, un calabrese, un catanzarese appassionato che si mette in testa di voler raccontare la campagna elettorale del candidato dell’asinello.  E' Francesco Paravati, giornalista free lance, scrittore, ha lavorato per Panorama, Radio Radicale, Dire e oggi porta a termine la sua avventura nel Paese che più di tutti ha influenzato la cultura occidentale degli ultimi anni. “In viaggio con Obama” (“Porto Sguro Editore”), pubblicato 11 anni dopo la campagna elettorale, è un viaggio dal basso che tocca con mano le emozioni, le pulsioni, il cuore degli americani. Il sogno, la speranza, il motto di cambiamento che quel candidato condivideva con i volontari ed elettori e che spesso appariva come un super eroe che tutto poteva, anche al di là di qualsiasi potere attribuitogli una volta alla Casa Bianca. Un’avventura fatta da 20 mila miglia percorsi e 14 diversi Stati dell’America visitati.

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Pubblicarlo oggi è un valore aggiunto perché il testo diventa un’indagine sul passato per provare a cambiare di nuovo le cose. Capendo, almeno adesso, che i super eroi non esistono.

“In viaggio con Obama” verrà presentato a New York domani (giorno in cui sarà possibile acquistarlo online o nelle librerie), insieme a Giovanna Pancheri, giornalista di Sky tg 24 ed Enrico Zanon, segretario del Partito Democratico italiano nella Grande mela.

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Partiamo da una domanda che le è stata posta appena ha messo piede negli states: “Siete venuti dall’Italia per seguire la campagna presidenziale di un democratico?”

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Vero, appena arrivati dall’Italia carichiamo degli Hippy in macchina e ci viene posta questa domanda. Non ce l’eravamo mai fatta finora perché dall’Italia sembrava un sogno. Noi eravamo in una situazione in cui Berlusconi aveva lanciato “Menomale che Silvio c’è” e il Pd aveva risposto con i dipendenti del partito che cantavano “’I’m youdem” sul tetto del Nazareno sulle note dei Village People. Una situazione molto trash in un momento in cui c’era bisogno di cambiamento. In America, invece, veniva fuori un candidato presidente che fa un discorso che lo rende famoso:  ”Yes we can” musicato con “Will i’m” (VEDI QUI ), che dava già l’idea della differenza di quello che stavamo vivendo in Italia e quello che accadeva negli Stati Uniti, sempre un po’ più brillanti a riguardo.
Non c’eravamo mai posti questa domanda perché netta la differenza.
Obama sembrava quasi un super eroe, come viene spesso raccontato nel libro, con dei superpoteri.
CI ha fatto dimenticare che doveva rispondere ad uno dei due più grandi partiti americani. Ma questa era anche la grande forza. Il fatto che un partito, anche dopo la crisi delle due sconfitte contro Bush e il vuoto lasciato da Clinton, puntasse su un giovane e brillante avvocato con idee meravigliose per sfidare i Repubblicani che avevano candidato un signore come John Mccain che aveva simpatie da entrambe le parti e che oltre ad essere un grande politico era un ex eroe del Vietnam.
Il coraggio e la disperazione del Partito democratico per vincere o dare del filo da torcere a Mccain ci aveva illuso che qualcosa potesse cambiare nell’establishment americano.
La nostra convinzione non era condivisa da chi seguiva e conosceva la politica americana: per loro Obama non era che uno strumento per colmare un vuoto; per noi era l’inizio di una nuova era perché venivamo da una realtà ben più triste in cui c’era poco spazio per i giovani.

 

Facciamo un passo indietro e torniamo al periodo storico in cui si svolge la campagna elettorale del 2008.
Gli Usa, trascinati dal presidente più “idiota del secolo”, sono in guerra in Iraq. Il prezzo della benzina al distributore è insostenibile, il pericolo di Al Qaida ancora palpabile.  Insomma, il sogno americano è fragile.
Come stava l’America quando siete arrivati?

Era certamente un periodo difficile dopo la guerra in Iraq e forse Bush nel 2004 era stato eletto solo per far fronte all’11 settembre. Nei telegiornali americani si sapeva poco persino di Bin Laden, ritenuto imprendibile.
Il prezzo della benzina saliva, l’economia era ai minimi storici, lo Stato congelò il pagamento dei dipendenti e la crisi era alle porte.
Il sogno americano sembrava dover sprofondare fin quando, come in tutte le belle storie americane, non arriva questo signore che indica una via diversa scavando nelle esigenze quotidiane e senza preoccuparsi di abbassare i toni. Da una parte all’altra dell’America Obama si appellava alle esigenze delle spese mediche (quello che poi diventò l’Obama Care), non dipendere troppo dal petrolio, l’energia alternativa. Uno che proponeva soluzioni senza avere l’esperienza. E questa mancanza di esperienza per la prima volta in America divenne un punto a favore. Gli americani, infatti, nello scegliere il loro “comandante in capo” si sono sempre rivolti a persone con una minima esperienza governativa o che provenivano dall’esercito. In questo caso le parole come “Yes we can”, “change”, in bocca a Mccain stonavo. Dette da un nuovo personaggio sembrano molto più credibili.
Il fatto che il sogno americano si appellasse a chi non aveva esperienza la diceva lunga su quanto fragile fosse diventato.


E poi arriva Obama. Avvocato, giovane attivista nero e democratico, già senatore, una capacità aggregativa autentica.


Quindi arriva Obama, con un passato ambiguo (per il nome o per le simpatie musulmane) ma che rappresentava la perfetta sintesi del mondo nuovo. Ci stavamo affacciando alle nuove tecnologie, e su questo il candidato democratico fece una cosa importante. Prese le vecchie liste elettorali e le aggregò ai nuovi mezzi di comunicazione come Facebook. In realtà Obama stesso diventa una specie di social network. Puntò sulle donazioni e sulle micro donazioni, grazie alla sua capacità di mettere insieme ed aggregare.  
Grazie a questa sua capacità, Obama riesce a portare tanti giovani volontari a convincere le persone ad andare a votare, che è il grande problema del voto negli Usa. Si vota poco di solito ma nel 2008 si batterono ogni record di affluenza, anche di persone di colore che prima evitavano di andare a votare per paura di ripercussioni. I volontari portavano le persone a votare con la macchina, andavano nelle case, cercavano di convincere tutti che votare non era un pericolo ma era un diritto: tutti volevano cambiare con Obama anche se molti avevano persino paura di andare al seggio.






Inizia la campagna elettorale da nord a sud, da est ad ovest degli Stati Uniti d’America al motto di “Yes we can”. Ci racconti i momenti salienti e qualche curiosità della caccia ad Obama.

Inizia la campagna elettorale e noi dovevamo scontare qualche problema: Berlusconi che aveva detto che Obama fosse abbronzato e anche il fatto che gli italo americani sono per lo più repubblicani.
L’ufficio stampa di Obama non aveva nessuna intenzione di farci parlare con lui. Primo errore, prendere la casa vicino il quartier generale di Obama, a Chicago. Obama ed i suoi erano interessati ai giornalisti che parlavano agli americani e non volevano perdere con gli italiani.
Cambiammo strategia: andavamo dietro alle più minuscole conferenze in cui Obama c’era, dall’Illinois a Toledo, in Ohio, nel Missisipi, accreditandoci con gli uffici stampa locali che ci permettevano di stare il più vicino possibile al candidato.
Il problema era che Obama era scortato e l’ufficio stampa ormai ci conosceva, negandoci la possibilità di intervistarlo. Una sola volta ci riuscii, fingendomi spagnolo, ma quando se ne accorse Obama rispose: “buongiorno” senza rispondere alla mia domanda. Fui tolto via.
Obama preferiva il pubblico ai giornalisti e così, in un’altra occasione, stando tra la folla cercai di intervistarlo sulla politica italiana ma anche lì rispose: “Buongiorno”. Anche quella volta l’ufficio stampa mi mandò via strappandomi il tesserino ed impedendomi, a loro dire, di partecipare ad altri convegni. Solo la simpatia italiana ci permise di continuare la nostra esperienza. 
Poi, per una strana fortuna, il 04 novembre, nello stadio di Chicago, eravamo riusciti ad aggirare la security e trovarci sul retro del palco. Obama saluta da nuovo presidente e noi siamo le prime persone che lui e Michelle incontrano dopo aver concluso il famoso discorso iniziato con “Hello Chicago” e in cui, a risultati ormai acquisiti, si proclama presidente degli Stati Uniti d’America. Anche in quell’occasione gli domandammo dell’Italia e rispose che non vedeva l’ora di venire a visitarla. Durò poco: l’Fbi ci cacciò capendo che eravamo giornalisti.


Obama diventa presidente e ci resta fino al 2016. Un bilancio?

“L’impressione è che, specie nella seconda legislatura, Obama sia stato lasciato da solo. E’ come se, anche noi italiani, avessimo trovato un supereroe e che i problemi erano finiti e toccava a lui risolverli.
La verità è che lui ci ha provato ma, come spesso accade, le elezioni di metà mandato fanno cambiare le maggioranze e bocciano tutto. Oggi, ad esempio, “l’Obama care” sta per essere smantellato da Trump. Eppure io ho incontrato gente che nel 2012 piangeva perché aveva paura di perdere le cure gratuite.
La sensazione che ho avuto durante questi anni è che l’America gli ha voltato le spalle”.

 

 

 



 

 

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