
Di M. CLAUDIA CONIDI RIDOLA*
Nel dibattimento processuale è frequente che, soprattutto quando si tratta di collaboratori di giustizia o testimonianze complesse, la difesa — specie nel controesame — si aggrappi a singoli passaggi di verbali, evidenziando presunte contraddizioni, imprecisioni, punti deboli o lacune nella memoria. È una strategia tattica: ogni frase isolata, se decontestualizzata, può sembrare un vulnus alla credibilità. Ma quando quella stessa strategia viene trasportata nella sede del ricorso per legittimità, il risultato è quasi sempre lo stesso: rigetto per inammissibilità. E la ragione sta in una decisione di gran rilievo della Corte di Cassazione del 10 settembre 2025 — con la sentenza n. 31296 della Sezione II penale — che ha stabilito con chiarezza che i motivi di ricorso basati su “stralci isolati di singole prove dichiarative, estrapolati dal contesto” sono da considerarsi inammissibili, perché violano il principio di “autosufficienza del ricorso”.
Questa decisione non è un caso isolato, ma conforma un orientamento consolidato della Suprema Corte: il ricorso per cassazione — civile o penale che sia — deve presentare una esposizione sufficientemente chiara, articolata e coerente delle ragioni di impugnazione; non può limitarsi a riprodurre attestazioni parziali, né a fare rinvio per relationem a fascicoli o atti estranei all’atto di impugnazione. Il motivo deve essere autosufficiente, cioè contenere in sé gli elementi necessari affinché il giudice di legittimità possa comprendere la critica senza dover “andare a cercare” nei documenti allegati o richiamati.
Nei casi riguardanti collaboratori di giustizia, questo principio assume una valenza cruciale, perché spesso il complesso dichiarativo si articola in decine di verbali, resi nell’arco dei 180 giorni concessi dalla legge. È fisiologico che in tale arco temporale emergano nuovi ricordi, precisazioni, rettifiche: dettagli ricordati successivamente, chiarimenti su fatti narrati, memoria di circostanze che inizialmente erano sfuggite. Se la difesa — o successivamente il ricorrente — si limita a selezionare pezzi che sembrano contradditori senza considerare l’intero iter dichiarativo, la Cassazione non potrà esaminare la fondatezza della censura: perché non è compito del giudice di legittimità ricostruire il “mosaico probatorio” basandosi su elementi sparsi, ma valutare la coerenza e completezza della motivazione rispetto all’intero materiale.
Così, la decisione n. 31296/2025 sancisce che i ricorsi fondati su stralci isolati — senza che emerga chiaramente nel ricorso come quei frammenti inficino la logica globale della decisione impugnata — sono inammissibili per genericità e violazione del requisito di autosufficienza. Ciò comporta la chiusura del ricorso ancor prima che il merito venga esaminato. In pratica, la Corte respinge la pretesa di usare in Cassazione la stessa “dialettica del dettaglio” tipica del controesame, perché nel giudizio di legittimità prevale la necessità di un discorso organico, ben strutturato, esauriente, che consenta di valutare la correttezza giuridica e logica della decisione impugnata in base all’intero compendio istruttorio.
Per chi difende collaboratori di giustizia, la decisione rappresenta un monito: non basta evidenziare “crepe” in singoli verbali, occorre ricostruire, con rigore e precisione, la traiettoria complessiva delle dichiarazioni; cogliere i chiarimenti resi in atti successivi, confrontare le versioni, spiegare come le apparenti discrepanze rientrino nella fisiologia del ricordo o della memoria personale, oppure derivino da modalità di verbalizzazione. Solo così la critica può risultare formata in modo da superare il filtro dell’ammissibilità.
In conclusione, la Suprema Corte — con la sentenza n. 31296/2025 — ha definitivamente confermato che la strada del ricorso fondato su brani selezionati e decontestualizzati è non percorribile. Il ricorso per Cassazione non è il prolungamento del controesame: è un atto tecnico che richiede visione sistemica, coerenza argomentativa e rispetto del principio di autosufficienza. Per il difensore di un collaboratore, questo significa che la difesa non può più basarsi sul “pezzo forte” isolato: deve costruire un ragionamento organico, completo, che renda comprensibile l’intero patrimonio dichiarativo e giustifichi la doglianza sulla decisione di merito.
*Avvocato
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