La lettera di Franco Cimino al nuovo arcivescovo di Napoli: "Il poeta del Vangelo"

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Franco Cimino
  12 dicembre 2020 18:17

di FRANCO CIMINO

Caro don Mimmo, oggi che tutti i giornali d’Italia, dalle prime pagine, scrivono di te, e di più nei prossimi giorni e sempre meglio nei prossimi mesi, e in maniera straordinariamente bella nei prossimi anni, e in forma sorprendente e ancor più gioiosa in quei giorni, o in uno solo tra questi, che Dio sceglierà ancora per te e per noi, io decido di scrivere a Te. Di te l’ho fatto più volte e, in particolare, quando sei stato eletto vescovo dal cuore dello stesso Papa che oggi ti chiama alla cattedra della Chiesa di Napoli. Scrivo all’ora esatta di questo mezzogiorno. La mia penna batte sul “foglio digitale” con la stessa forza del mio cuore. E con quella delle campane delle diocesi di Cerreto e di Napoli e quelle delle chiese della tua Satriano. Tutte le sento. Singolarmente e tutte insieme. Ciascuna ha un suono particolare. Autonomamente parlano di te. Della tua storia di ragazzo calabrese, che a un certo punto della sua giovinezza ha sentito la “ chiamata” e ha deciso di farsi prete, scegliendo immediatamente quale prete essere e lungo quale strada camminare per esserlo per davvero. Che mica è vero che l’abito fa il monaco! Troppe volte lo abbiamo ricoperto, il nostro abito, di onore e glorie immeritate, facendone simbolo di un potere che abbiamo esercitato solo per noi nella dimenticanza degli altri. Una dimenticanza che da sempre si fa disprezzo della vita e della dignità di chi la porta, tante volte come croce e dolore, lungo il proprio cammino. Tu hai scelto subito una sola strada, il Vangelo. E non l’hai mai abbandonata. Mai, neppure un solo minuto. Il Vangelo, il tuo libro, non per predicarlo soltanto, cercando “adepti” per la tua Chiesa o uomini da convertire. Ma per testimoniarlo. Per viverlo nella Sua interezza e profondità. Certo che l’hai anche “ parlato”, il Vangelo! Lo hai fatto sempre con quella parola sincera e vera, dolce e forte, confortatrice e ammonitrice. L’hai “parlato” raccontandocelo con la semplicità degli apostoli, che l’hanno scritto e vissuto nelle azioni di tutti i giorni prima che diventasse Parola per tutti gli uomini, non solo di buona volontà. L’hai parlato, il Vangelo, per parlargli. Sì, parlare a quelle scritture, a quel libro sacro, a quelle parole per interrogarli insistentemente. Ne aveva bisogno la tua umiltà di uomo e di pastore. Di uomo tra gli uomini e pastore in mezzo alle pecore, di loro profumando.

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Sei il prete delle domande. Quelle potenti che fanno tremare chi le stesse si pone. Quelle domande, che sono andate fin dentro i dogmi della stessa fede. Quelle domande inquiete, che ci fanno crollare impotenti e arretrare impauriti. Oppure, crescere, diventando uomini nuovi ogni giorno. Più forti dalla fragilità, più sicuri dall’incertezza, più fieri dalla umiliazione. Più veri dall’autoinganno. Più credenti dalla ignoranza. Più fedeli da quella sorta di agnosticismo che molti assale e confonde. E molto di noi prende. Ecco, posso dirlo senza timidezze e infingimenti, la tua parola è interrogante mentre spiega, sale dal dubbio mentre rivela. Ho spiato nei tuoi occhi di eterno fanciullo, occhi puliti e sempre lucidi. Li ho visti mentre parlavi faccia a faccia con il tuo prossimo, sguardo nello sguardo di chi ti stava difronte, sempre rivolti al Cielo. Li ho visti, spiandoli, mentre domandavi a Dio, a volte con quella severità contrapposta alla tenerezza verso i tuoi interlocutori, del perché del dolore e del male che lo procura. Del significato della morte. E della povertà, ti ho visto domandare. Di quella materiale, del pane e dell’acqua, per i due terzi dell’umanità. Di quella morale, della mente e dello spirito, del terzo che la povertà procura. Infligge, non solo come istinto diabolico all’egoismo, alla voglia sfrenata di possedere avidamente sempre di più, ma come una sorta di superiorità nei confronti degli umili che non si sono ribellati. Ovvero, come segno distintivo di un dominio assoluta del potente nei confronti dei deboli. Del debole, in ogni spazio e tempo e dimensione.

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Ho scrutato anche nelle tue parole. Le ho ascoltate incantandomi per la melodia, in esse crescente come un suono che viene dall’Alto, sia quando dall’altare le hai pronunciate, sia quando anche a me direttamente le hai rivolte, ogni volta confortandomi nel dolore e nelle paure, che mai ho avuto necessità di dirti, ché tutto capivi prima. Le ho lette, nei tuoi libri e nelle lettere pastorali, nelle quali ho trovato tutta la poesia del mondo. Tutte le parole dei poeti, perché poeta tu sei sempre stato. Nel dire e nel sentire. Un poeta, quello che sei, quale altro segno del Divino per confermarci della Sua esistenza. Un poeta, quello che tu sei. E nella tua poesia, che è in te, quale delicato stigma della tua santità. Il poeta del Vangelo, del quale ogni volta ci parli attraverso quel colloqui diretti che tu fai, di volta in volta, con Alessandra, Gabriele, Francesco, Anna, e tanti altri nomi, sempre presenti nelle tue lettere ed omelie. Sono ragazze e ragazzi, uomini e donne, che quotidianamente incontri lungo la via del Vangelo, quando esso si fa vita vissuta, parola curativa delle sanguinanti ferite che hai curato. E monito, sguardo duro pur nella tenerezza. Si fa condanna, anche nei confronti di quanti abbiamo lasciato soli per le strade dispersi questi esseri umani, o fatto sì che vi restassero, scartati perché non servono, impegnano troppo, come dice Francesco. E sono pure brutti e sporchi, diciamo noi. Tu parli ancora con loro, uno per uno, chiamandoli per nome, perché ancora, da Vescovo, li incontri in quella realtà difficile e triste che è il territorio dell’alta Campania in cui ricade la diocesi che stai per lasciare. Lo sento forte: in ciascuno dei volti nuovi che incontri e accarezzi, in tutti i nuovi occhi che delle lacrime asciughi, Tu vedi sempre i volti e gli occhi delle ragazze e dei ragazzi che hai incontrato qui in Calabria. Quei ragazzi che sei andato “ a prendere” nelle strade rovinate e pericolose della nostra terra. Quelle strade uguali alle strade tutte uguali di questo mondo che sembra sempre girare all’incontrario. Anche delle leggi astronomiche o fisiche, oltre che di quelle semplicemente umane. Francesco è uomo di parola, oltre che santo. I potenti e gli ingordi, i fautori dell’ingiustizia e quelli che su di essa godono di profitti e privilegi insopportabili( non pochi si trovano anche dentro la Chiesa del potere, la chiesa-potere), non lo amano affatto e questo lo si sa bene. Ma nel popolo immenso che lo ama, pochi avrebbero immaginato che in quelle due Sue brevi visite in Calabria, avrebbe dato corpo alle parole che Egli ha rivolto ai calabresi e per la Calabria. Tutti, anche nel resto del Paese, lo ricordiamo per quell’anatema contro la mafia e la conseguente scomunica dei mafiosi. Pochi, però, per quella sorta di impegno assunto verso una terra bella ma maltrattata, continuamente violata da chi non l’ama e non la difende, da chi non la serve ma di essa si serve rubandole tutte le risorse e i doni del Creato. Questa terra ha bisogno di uomini nuovi. Francesco, per starle accanto e sostenerla con i più alti gesti di fiducia verso di essa, ne ha scelto uno. Il migliore, di certo. Ma anche il più calabrese dei calabresi, il più coraggioso e umile. Il più rassomigliante per intelligenza e volontà, spirito di sacrificio e generosità, onestà e sincerità, all’uomo di questa terra, che è padre laborioso, figlio tenero e intenso, fratello solidale, sposo degno della sua sposa, amico che dona tutto di sé ai fratelli-amici e alla terra che li ha partoriti come persone di alta dignità e profonda umanità. Come lavoratore, schiena curva sulle reti e sui campi da coltivare, mani callose e sporche. E gli occhi al cielo. Per vedere se cambierà il tempo, per chiedergli che piova l’acqua che serve e quella che non rovini i frutti. E per scrutare, attraverso ogni più fioca luce o quella del sole, il volto di Dio e della sua fatica. E gli occhi di dolore di Gesù quando guarda gli uomini che ogni forma di vita distruggono. Francesco, nominandoti Arcivescovo della Diocesi più importante d’Italia insieme a quella di Milano, ha voluto dire ai calabresi: "puntate anche voi sulle vostre migliori energie e fatene strumento del cambiamento, perché solo un popolo che crede in se stesso, e come popolo cammina, veramente si libera”.

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Oggi, caro don Mimmo, i primi a complimentarsi con te e a inviarti le frasi più enfatiche, sono i calabresi che più contano, quelli dell’abito “che fa il monaco o forse no”. Insieme a loro tanti altri di umile condizione, a che morale. Sono, siamo tutti, sinceramente e diversamente felici. I tuoi ragazzi e chi li aiuta quotidianamente, li avrai già sentiti tu. Io credo, e da questa lettera non riservata apertamente tutti sollecito, e me stesso con loro, che il modo migliore, a te più gradito, di farti gli auguri e sentirci onorati per questa Tua alta chiamata, sia quello di sostenere le due più grandi cause a cui hai donato tutto te stesso, qui da noi, e che sono, purtroppo, fortemente in crisi. Anche per colpa di questa regione che non li vede, se li dimentica e li lascia nelle difficoltà più mortali. Sono , lo dico per chi non le vuole ricordare, Fondazione Betania e il Centro Calabrese di Solidarietà, i due enti morali che da decenni hanno dato le risposte a quei bisogni cui non hanno provveduto le istituzioni. Recenti notizie Covid a prescindere, Betania soffre di una crisi economica e anche di gestione gravissima. Il rischio di chiudere, con le conseguenze anche sugli appetiti illeciti, i soliti, si fa sempre più forte. I lavoratori, gente buona e generosa, per il momento tengono duro, anche senza soldi stipendiali certi e continui, e la struttura coraggiosamente sostengono. Temo, davvero molto, che gli sforzi del nostro Arcivescovo, da soli, questa volta, potrebbero non bastare. Il Centro Calabrese “non ha più una lira” e ogni giorno è sempre una fatica nuova, come quella di chi deve uscire la mattina presto per procurare il pane per i propri figli. Isa, la dolce combattente, per nulla affatica dal lavoro e dagli anni, che insieme al suo piccolo esercito di volenterosi, con cui porta avanti la tua passione per il sollievo di una particolare sofferenza non solo giovanile, da più di un anno gira francescanamente per le vie lastricate della regione e di Catanzaro, alla ricerca di aiuti. Li cerca, soprattutto, alle persone comuni, che con poco della loro pur modesta entrata mensile “potremmo” garantire quel minimo necessario al mantenimento di un così alto servizio sociale. Ecco, se facessimo un piccolo atto del tuo amore potremmo salvare Betania e Centro, farti felice, acquietare la nostra coscienza. Se poi, in tanti, ti imitassimo un poco nell’ansia di donare a questa nostra terra atti di giustizia e carità e le parole del Papa “ calabrese” seguissimo, la nostra coscienza umana, e per chi crede anche cristiana, unita alle altre potrebbe trasformarsi in coscienza civile e politica. Sì, politica, nel senso già indicato da Paolo VI, quale più alta forma di carità e, io credo, anche quale autentica invenzione di Dio affinché gli uomini la carità esercitino. Questi tre piccoli passi per farne uno grandissimo in direzione della costruzione di una Calabria nuova. Bella. Sana. Onesta. Giusta. Pacifica e pacificata. Una Calabria dove la lotta contro la ‘ndrangheta, sia solo uno strumento di un impegno coerente e costante a favore della promozione della vita in ogni sua manifestazione. Sempre. Questo ci hai insegnato, amico mio e di tutti. Di combattere sempre donandosi agli altri, senza se e senza mai. Anche quando restassimo soli e rischiassimo molto più che il nostro misero tornaconto. Ché la denuncia, verbosa e verbale, verso coloro che, non facendo, renderebbero inutile il nostro impegno individuale, si rivela, come tu insegni, una misera scusa per coprire le nostre grandi pigrizie e le nostre non piccole viltà. Vorrei dirti tante altre cose ancora, don Mimmo, ma dalla stanchezza della mia mano e dal tempo passato oltre il mezzogiorno, mi sono accorto che l’ho fatta troppo lunga. E siccome conosco il tuo generoso rispetto verso chiunque, costringendoti a leggermi farei perdere tempo al riposo dalle tue odierne emozioni e alla cura della tua gente. Soprattutto, voglio lasciarti al tuo pianto, quello che ti prende dinanzi alla chiamata a responsabilità più gravose. Piangi, come hai fatto in Cattedrale a Catanzaro solo quattro anni fa. Piangi, come hai fatto davanti al dolore della gente e lì, in terra di Campania, davanti a quei genitori disperati per la perdita improvvisa del loro unico giovane figlio. Piangi, ché il tuo pianto si fa preghiera. Per tutti. Dio ti ama e ti ascolta. Anche per quella tenerezza di figlio che ancora si dona all’abbraccio della sua mamma, perché lo conforti e lo benedica. Ti voglio bene. Assai. E grato al Signore di averti conosciuto.

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