La Traviata, Marco Calabrese: "Per fortuna che la musica è bella!"

Share on Facebook
Share on Twitter
Share on whatsapp
images La Traviata, Marco Calabrese: "Per fortuna che la musica è bella!"

  05 gennaio 2024 18:58

di MARCO CALABRESE 

 

Banner

Nel 1853 Giuseppe Verdi consegnava al pubblico veneziano l’esecuzione dell’opera La traviata. L'accoglienza non fu delle migliori, spingendo il compositore a rivederne alcune parti, col risultato che l'esecuzione successiva decretò la popolarità di cui gode ancora oggi.

Banner

La traviata infatti, con le sue melodie, è diventata l’opera tra le più eseguite al mondo. Non c’è Capodanno sul pianeta che non utilizzi il celebre Brindisi, non c'è film che non abbia utilizzato le sue musiche, e molte delle arie e duetti sono diventati “titoli” di altre composizioni artistiche. Sempre libera, Parigi o cara, e altri… Dalla pubblicità alla
musica pop, dal fumetto alla video art.

Banner

Il soggetto dell’opera, tratto dal romanzo La dame aux camelias di Alexandre Dumas figlio pubblicato nel 1848, fa riferimento alle vicissitudini di Marie Duplessis (alias Alphonsine Plessis) bella colta e intelligente cortigiana parigina che aveva terminato la sua vita nel 1847 all’età di 23 anni. Con Dumas prima, e con Verdi dopo si mette su
un palcoscenico una storia reale, una “lorette” (donna galante e lussuosa), una donna di cui si parlava molto nei salotti della città, una donna che scuoteva la benpensante e rigida moralità. Se nel romanzo e la successiva versione per il teatro di Dumas il titolo dell'opera non si presta ad interpretazioni, proprio nell’opera di Verdi già il titolo è identificativo di un soggetto moralmente guasto, uscito dalla retta via, indecente e corrotto.

Verdi, con la sua musica, questo conflitto lo tratteggia con maestria. Violetta Valery, ad una festa conosce Alfredo Germont. Lei ne rimane sconvolta: “Ah forse è lui” l’uomo che potrebbe rendermi felice, facendomi scoprire cosa significa “essere amata, amando”. Ma non può essere così, tutto questo è follia! Lei non può adagiarsi sul morbido talamo amoroso. La sua vita e la sua professione glielo vietano. E’ nata
per essere “sempre libera” percorrendo con spensieratezza i “sentieri del piacer”. Alla fine cederà all’amore di Alfredo, ma il successivo incontro col di lui padre, la porrà nuovamente di fronte ad un conflitto la cui soluzione è un sacrificio: rinunciare ad Alfredo per salvare il buon nome della famiglia Germont, e consentendo in questo modo alla sorella di Alfredo, già “pura come un angelo”, di poter convolare al sacramento del matrimonio. E qui riconosciamo, unanimemente, l'universalità dell’opera, e del suo attualissimo tema.

Musicalmente Verdi ci offre una Violetta dapprima più frivola, gaudente e spensierata, anche se già adombrata dal suo grave problema di salute e dalla nuova passione amorosa che sta provando; poi una volta appagata dal suo amore si scontra con il “ben pensare” e con le regole di una società borghese; alla fine “sola e abbandonata in questo popoloso deserto che appellano Parigi” (Violetta canta la frase nel primo atto, ma è nell’ultimo che si compie la profezia!), consciente di un passato che non potrà più tornare, cederà alla morte tra le braccia del ritornato Alfredo accompagnato dal padre.

Aggiungere quindi qualcosa a quest’opera che oramai ha ricevuto il suggello di “capolavoro” è operazione alquanto ardua; o si è geniali oppure è meglio lasciar perdere.

Lorenzo Lenzi, giovane (e si vede) regista de La traviata messa in scena al Teatro Politeama di Catanzaro per conto della Sicilia Classica Festival, non fa parte della prima categoria registica.

Nessuno di noi ha potuto ammirare la tanto decantata Parigi ottocentesca, perché di fatto di ottocentesco non c’era nulla! Anche la farfalla tatuata sulla spalla della protagonista non lo è. Poi bizzarre e inconsistenti idee: “tre Grazie” nude a simboleggiare la “perfezione neoclassica” (siamo o no nel 1850?) che dovrebbero, come afferma il regista, “disgregarsi” come Violetta “nel momento della rivelazione della realtà”. Cogliamo l’occasione per dire che le “tre Grazie” non si sono disgregate, e la stessa Violetta non ha avuto rivelazioni, semmai ha sempre subito conflitti, con se stessa e con la società.
Papà Germont diremmo oggi è un uomo tutto d’un pezzo, rimprovererà suo figlio quando è necessario (“Di sprezzo degno, se stesso rende, chi pur nell’ira la donna oende”). Ma da gentiluomo quale è, non offre mai, e lo stesso compositore non lo ha mai indicato, soldi a Violetta: e invece Lenzi gli fa lanciare una manciata di banconote sulla poltrona di Violetta, che poi saranno quelle che Alfredo successivamente intasca per poi rilanciarle a casa di Flora.

Anche i balletti hanno offerto momenti di ilarità: le zingarelle tre ballerini truccati, e i mattadori ballerine in abiti da torero. Nel terzo atto Verdi, uomo e compositore che conosce benissimo i tempi teatrali, inserisce un accompagnamento di “marcia funebre” sul “Prendi, quest’è l’immagine dei miei passati giorni” consegnando ad Alfredo un medaglione conservato in un ripostiglio (nota di regia del Maestro Verdi); ecco l’ultimo conflitto di Violetta. La morte arriva ora in maniera indiscutibile. E invece Lenzi inizia l’atto con la proiezione di un teschio Memento mori che rovina la speranza (teatrale) di una possibile svolta. Sulla stessa Marcia funebre sul fondo un corteo, che
non va ad un funerale ma all’asta dei beni appartenuti a Violetta.

Tutte queste sono “aggiunte” di chi ancora non ha compreso la ricchezza musicale e letteraria di un'opera, e non ne ha letto con attenzione il libretto. Desirèe Rancatore, da brava donna di palcoscenico, ha saputo calibrare la sua performance, anche se a tratti con voce velata, suoni non sempre a fuoco, e con una voce non sempre omogenea. Verdi non ha mai scritto l’acuto finale su “Sempre libera”. Meglio non farlo.

L’Alfredo di Alessandro Scotto di Luzio, mancava di recitazione teatrale. Il materiale vocale a tratti si espande con un bel suono. Ma non basta. Una voce ancora molto chiara quella di Giovanni Palminteri che interpreta Giorgio Germont. Ma sicuramente buona performance, anche se spesso non “a tempo” con la buca.
Tra gli applausi scroscianti del Teatro Politeama, si è conclusa così la serata. Dobbiamo ringraziare soprattutto Giuseppe Verdi, che con il suo terzo atto ha addolcito, commosso e abbracciato ognuno degli spettatori; rendendo anche più digeribile la grossolanità di alcune trovate registiche.

Banner
Banner
Banner
Banner
Banner
Banner
Banner
Banner
Banner