di STEFANIA PAPALEO
"TESEO”. Un nome entrato a pieno titolo nella storia giudiziaria italiana. Per mano del superconsulente che parte importante di quella storia ha scritto. Parliamo del famigerato archivio di Gioacchino Genchi, che già a nominarlo fa saltare dalla poltrona gli ospiti di palazzi del potere solo apparentemente inviolabili. Parliamo di migliaia di intercettazioni messe insieme nell'ambito delle inchieste più dirompenti degli ultimi 30 anni. “Intercettazioni trattenute illegalmente anche a indagini concluse”, aveva urlato il Garante della privacy di Palermo nel momento di comminare, nel 2016, una sanzione da ben 192 mila euro a carico del perito informatico. “Uno scandalo senza precedenti”, per i politici che, di volta in volta, erano finiti al centro della sua attività. Un grande flop, diremo noi oggi, alla luce della sentenza con cui il giudice del Tribunale di Palermo, Sabastiano Ciardo, ha annullato quella maxi sanzione, certificando la legittimità dell'operato di Genchi, il cui nome in Calabria viene associato immediatamente a quello dell'ex pm Luigi de Magistris e alle sue inchieste “Poseidone” e “Why not”, nell'ambito delle quali il superconsulente, nel 2006, avrebbe operato un’intrusione – così la definirono le “vittime” dell'epoca - nella vita privata dei politici indagati (l'ex premier Romano Prodi compreso), acquisendo “senza autorizzazione” migliaia di tabulati telefonici presso le Camere di appartenenza. Presunta “intrusione” che portò, nel marzo del 2009, i carabinieri del Ros a sequestrargli l'archivio, che gli fu restituito con tante scuse e pace fatta. Salvo essere risequestrato in seguito a una denuncia presentata dal magistrato Alberto Cisterna, sempre per abuso d'ufficio e detenzione illegittimo del materiale informatico da Genchi acquisito nel corso di un'indagine portata avanti per conto della Procura di Reggio Calabria.
Ieri l'epilogo della vicenda che ruotava intorno alla sanzione del Garante della privacy, che gli aveva contestato una serie di violazioni della normativa in materia, ritenendo che Genchi avesse “detenuto e continuato a trattare i dati personali ben al di là dei termini fissati per i singoli incarichi, alcuni addirittura riferiti ad indagini svolte circa venti anni prima, utilizzando la relativa documentazione telematica confluita in una enorme banca dati denominata “TESEO”, sia per espletare altri incarichi, sia per scrivere libri e, al contempo, rendendo accessibili tali dati ai propri collaboratori ed a soggetti esterni oltre che a consentirne il trattamento anche ad una società – C.S.I. s.r.l. - Centro Servizi Informatici”.
Niente di tutto ciò per il giudice di Palermo, davanti al quale Genchi ha dimostrato la legittimità del suo operato, intascando la sentenza nella quale si certifica – nero su bianco – che “tutta la documentazione prodotta dimostra che la gran parte degli incarichi peritali erano ancora non esauriti, nel senso emergente dallo stesso contenuto dei quesiti formulati all’atto del conferimento dall’autorità procedente”. Anzi, scrive ancora il giudice, “gran parte dell’attività espletata nel corso degli innumerevoli incarichi ricevuti viene utilizzata ancora oggi da Genchi per esercitare il suo diritto ad ottenere la liquidazione dei compensi e tutta la strumentazione informatica, i reperti e la banca dati “TESEO”, oggetto di sequestro, era preordinata, perlomeno in parte, alla definizione di incarichi ancora pendenti al momento dell’esecuzione del provvedimento ad opera dei Ros e, dunque, la relativa attività di trattamento dei dati personali ivi contenuti era legittimamente esercitata “nell’ambito giudiziario”. L’ordinanza di ingiunzione del Garante, al di là della nuova formulazione della norma, non contiene alcuna distinzione tra reperti e docu-mentazione informatica che doveva formare oggetto di integrale restituzione perché relativa ad incarichi totalmente definiti e documentazione piuttosto riferibile ad incarichi ancora in corso per i quali, nel senso dapprima precisato, l’attività del consulente non era ancora esaurita ed il relativo trattamento era autorizzato dall’AG”.
Insomma, per farla breve, il mandato conferito da tutti i Pubblici ministeri che hanno affidato le 351 consulenze “incriminate” era talmente ampio da consentire a Genchi di "compiere, acquisire, trattare, estrapolare, rielaborare, archiviare, costituire link di accesso in remoto fruibili da diversi utenti, anche oltre termine ordinario, con facoltà estesa alla sua società e ai suoi collaboratori”. Da qui la decisione del giudice di annullare l'ordinanza del Garante, arricchendo di un ulteriore capitolo una storia la cui fine – c'è da giurarci – è ancora lontana dall'essere scritta. E che a molti fa ancora tremare i polsi.
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