L'intervento. L'avvocato Ottavio Porto: "Un Platone inaspettatamente moderno"

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L'avvocato Ottavio Porto (vice presidente del movimento forense e membro della camera penale)
  02 maggio 2020 18:02

di OTTAVIO PORTO*

L’insaziabile desiderio di questo bene e la noncuranza degli altri valori non mettono forse in crisi anche questa costituzione e non preparano l’avvento inevitabile della tirannide?” (Repubblica, VIII, 561e-562d)

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Vibra nell’aria un redivivo “manicheismo”. Il rumore dei soldati del bene, bardati di incrollabile verità, diventa sempre più fastidioso. C’è - tutt’intorno - un desiderio di giustizia che nasconde altre divinità, morbosamente seduttive con la sensualità che solo le maschere sanno offrire. Ed oggi, così come troppe volte già successo, mentre un gruppo di filosofi 2.0 (leggasi profeti da tubo catodico) racconta di nuovi “alti ideali” ad un pubblico distratto dalle paillettes, l’orecchio più allenato intende distintamente la deriva.

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Cosicché, focalizzare il rapporto fra verità e potere, anche in un’ottica di apertura interdisciplinare alla storia e alla educazione civica, appare di impellente modernità. A condurci lontano dalle “luci sintetiche” non potrà che essere Platone: attraverso una breve rilettura del suo pensiero politico, si potrà scoprire quanto sia facile (ed al contempo difficile) orientarsi attraverso percorsi apparentemente antitetici ma ugualmente validi, sul piano epistemologico. Laddove i concetti di bene e male (senza dover scomodare un famoso pensatore di Rocken), appaiono più che sfumati, oseremmo dire, intercambiabili, si apre la finestra della ragione. E più ci si sforza a propinare una interpretazione conforme ad un presunto - supremo - piano assiologico condiviso, più si comprende la vicinanza tra ciò che risulta superbamente sbagliato rispetto a quanto pare immediatamente necessario. L’interrogazione del passato a partire dall’orizzonte di precomprensione del presente, invita a scoprire inaspettate connessioni fra le riflessioni sui presupposti della democrazia e la analisi interpretativa del pensiero dei grandi filosofi.

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Popper, per esempio, ritiene Platone il teorico paradigmatico della tradizione antidemocratica e quindi totalitaria, non attraverso la ricostruzione filologica del suo pensiero e della società nella quale si confronta, ma - si è detto - per una interpretazione deformata dalla weltanschaaung contemporanea.  Invero, discendente dalla più antica e illustre nobiltà ateniese, Platone ha sentito sin dal principio l'attrazione della politica. Assumendo i tiranni di Siracusa come interlocutori di un “esperimento” di monarca-filosofo, ha adottato un punto di vista che potremmo definire hobbesiano: quello della indistinguibilità tra monarca e tiranno, se non in ragione delle azioni compiute, e il rifiuto, quindi, della usuale distinzione basata sul giudizio di valore espresso da sostenitori e avversari. Questo atteggiamento dovette essere comune anche ad altri socratici, e trovava origine, forse, dall'atteggiamento radicalmente critico dello stesso Socrate - nei confronti di tutte le forme politiche tradizionali.

Può naturalmente suonare strano voler effettuare un parallelismo tra la idea del bene, del giusto, che pervadono la dialettica contemporanea, immergendosi nell'ambito di questioni relative alla filosofia politica greca. Eppure, giova ricordare che l’ateniese maestro di Aristotele, provò a definire l'idea del bene, come la “idea delle idee”, cioè quel principio che garantisce l'ordine al mondo politico reale. Popper, “decontaminando” il pensiero di Platone in primis dal contesto storico di riferimento, ovvero “contaminandolo” attraverso la lente dei propri giudizi aprioristici, è riuscito a catalogarlo persino come “filosofo del totalitarismo”.

E se un individuo così profondamente legato al concetto del “bene” abbia subito un fraintendimento simile, o - per meglio dire - un allargamento del proprio orizzonte concettuale, non ci resta che cominciare seriamente a diffidare da coloro che professano il “manicheismo”. Giacché, sappiamo, Platone non era assolutamente un reazionario autoritario. Non era, per esempio, sostenitore del sistema di status che prevaleva in Grecia ai suoi tempi. Sosteneva, infatti, non solo che non ci si poteva aspettare che il sistema esistente potesse mantenere stabile la società, ma anche che il punto d’arrivo sarebbe stato il caos, se non si fossero previste riforme radicali. Addirittura, fu tra i primi a proporre di assegnare lo status agli individui partendo da un fondamento che fosse razionale, piuttosto che dipendente dalle contingenze della nascita o della fortuna. All’apice della società, si sarebbero dovuti trovare quelli che definiva gli uomini d’oro: i re-filosofi che avrebbero creato le leggi. Il gravoso compito di governare uno stato tramite la legge non poteva essere lasciato alla gente comune; piuttosto, dovevano farlo coloro che erano capaci di esercitare la facoltà della ragione, quelli che potevano comprendere gli “universali”.

Le leggi sono infatti quegli universali che abbracciano i caratteri particolari dell’esperienza. In questo Stato utopico, i re sarebbero stati filosofi; i filosofi sarebbero stati i re. Era, infine, compito dell’educazione identificare le potenzialità di ciascun bambino, formandolo per la posizione sociale che si confaceva alle sue capacità - giammai trasferibili per via ereditaria. L’ideale platonico e le conclusioni di Popper, possono essere usate come punto di svolta della nostra riflessione. Ciò che può sembrare “bene” per una società, in un dato momento storico, attraverso la lente di una morale, non è per forza “giusto” e, soprattutto non lo sarà per sempre. Nel corso di millenni di evoluzione, l’ontologia stessa di un concetto potrà assumere i contorni più disparati e - anche attraverso solide validazioni di tipo normativo - persino le più grandi assurdità (di un determinato contesto) potranno assumere connotati positivi.

Come ammonisce Duque de Rivas, grande romantico spagnolo “in questo mondo traditore non c’è né verità né menzogna: tutto dipende dal colore del vetro attraverso cui si guarda”. Se ci è apparso di poter far confluire nella categoria del plausibile sia una interpretazione “autoritaria” di Platone, che una “socialista”, cosa ci aspettiamo di diverso dalla lettura della storia, sia come elencazione cronologica degli eventi, che come evoluzione del pensiero filosofico del prossimo futuro? Siamo maturi per comprendere che, al fine di intravedere brandelli di verità, così come insegna la filosofia, l’unica cosa davvero da evitare attraverso il pensiero critico, è  la soppressione della dialettica, tanto in voga in questo periodo, scongiurando il dilagare della moda della semplificazione (rectius banalizzazione) persino dei più difficili e settoriali approdi del pensiero?

Certamente le cose non stanno in modo tale che dal concetto o, come dice Platone, dall'idea, debba venir dedotto e fissato il tutto, e men che meno che questo tutto debba durare per sempre.

                                                                                                             *avvocato
vice presidente del movimento forense
e membro della camera penale

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