
di TERESA MENGANI
Nel silenzio rarefatto della Galleria Il Leone, il dipinto di Umberto Falvo si impone come una presenza quasi metafisica. Non è un quadro che si limita a essere osservato: sembra piuttosto guardare lo spettatore, scrutandolo da dentro la propria superficie. In questa recente esposizione romana, Falvo riafferma la sua capacità di trattare la pittura come un territorio di meditazione interiore, dove luce e materia diventano linguaggio di un conflitto umano.
La sua tela, inserita nel contesto della collettiva Angeli & Demoni, si colloca in un punto di equilibrio sottile tra figurazione e astrazione. Da lontano, l’occhio percepisce forme riconoscibili in un frammento di corpo ma, avvicinandosi, la pittura si sfalda in un tessuto di segni, colature e velature che negano ogni certezza. È come se l’artista ci costringesse a una continua oscillazione tra riconoscere e dubitare.
La luce è protagonista assoluta: non descrive, ma rivela. Una lama chiara attraversa la composizione e divide l’immagine come un taglio di coscienza. Non si tratta della luce che illumina, bensì di quella che svela e giudica. In questo senso Falvo recupera una sensibilità quasi caravaggesca, ma la traduce in chiave contemporanea, con una gestualità più nervosa e frammentata, che ricorda certi espressionismi della seconda metà del Novecento.
La materia pittorica è densa, quasi tattile. Si percepisce la volontà di far “respirare” la superficie, come se ogni strato raccontasse una fase di introspezione. Le pennellate più scure sembrano sedimentazioni del pensiero, mentre i bianchi, più radi ma vibranti, aprono fenditure verso l’altrove. Falvo non dipinge solo ciò che vede, ma ciò che resta dopo aver guardato.
Concettualmente, il dipinto è una riflessione sulla doppiezza: l’eterna convivenza del bene e del male, dell’elevazione e della caduta. Tuttavia, l’artista non sembra voler scegliere: ci invita piuttosto ad abitare il confine, a sentirne l’instabilità. È un’opera che non consola, ma inquieta. E proprio in questo risiede la sua forza.
Rispetto ad altre opere in mostra, quella di Falvo si distingue per una sobrietà intensa. Non c’è compiacimento estetico, nessuna spettacolarità decorativa: la sua pittura rimane essenziale, costruita su contrasti e silenzi. Forse qualcuno potrebbe trovarla “fredda”, ma è un freddo necessario , quello che permette di avvertire la temperatura reale delle emozioni, senza la mediazione del patetico.
Nel complesso, l’opera conferma Falvo come autore coerente e maturo, capace di dare alla pittura una funzione quasi terapeutica, ma mai facile. È un dipinto che chiede tempo, che si lascia comprendere solo a chi accetta di restare davanti, senza fretta.
In un’epoca di immagini urlate, Falvo sussurra e proprio per questo la sua voce resta.
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