DI TERESA MENGANI
Tra attese infinite, corruzione e la morte lenta del senso civico
C’è qualcosa di profondamente ingiusto e sconfortante nel vedere ammalarsi in Calabria. Ma è a Catanzaro che questa ingiustizia ha assunto i contorni di una tragedia sociale: quella di una sanità che non cura più, ma che aspetta, rimanda, promette e spesso tradisce. Un sistema che si è arreso, o peggio ancora, ha scelto di voltare le spalle ai più fragili.
L’ultimo scandalo giudiziario che ha travolto l’ospedale “Dulbecco” non sorprende più nessuno. Ormai, l’indignazione non è nemmeno rabbia: è rassegnazione. Sappiamo che i medici coinvolti non sono marziani caduti da un’altra galassia, ma uomini e donne che hanno scelto di barattare il giuramento di Ippocrate con un guadagno personale. Un patto cinico con il diavolo dell’opportunismo. E intanto, chi non può permettersi una visita privata resta a guardare la propria salute sgretolarsi, giorno dopo giorno.
La cosa che fa più male è che in Calabria, e Catanzaro è solo l’emblema di un male più vasto, ci si è abituati a tutto: alle liste d’attesa di due anni per un elettrocardiogramma, alle ecografie promesse e mai prenotate, agli sportelli che non rispondono mai, ai referti che arrivano quando ormai non servono più. Ma ci si è abituati soprattutto a sentirsi soli. Perché quando lo Stato ti fa aspettare, è come se ti dicesse che non conti abbastanza.
E mentre i pazienti contano i mesi sul calendario, alcuni contano i soldi. E li fanno, tanti. In nero, dentro ospedali pubblici, usando macchinari pagati con le tasse di tutti. È questa la parte più amara: la sanità non è più pubblica, ma selettiva. Cura chi può pagare. Agli altri resta la speranza. O la rassegnazione.
Ma la domanda vera è: cosa c’è da salvare, oggi, nel nostro sistema sanitario? Forse ancora qualcosa. Ci sono medici onesti che combattono ogni giorno con turni impossibili e mezzi ridotti. Ci sono infermieri che restano umani nonostante tutto. Ma c’è anche una macchina burocratica che li schiaccia, un’organizzazione che non organizza nulla, un’assenza di direzione che ha trasformato la sanità in un mostro cieco e sordo.
Il cittadino calabrese non si sente solo malato. Si sente abbandonato, umiliato, preso in giro. È costretto a diventare esperto di “trucchi” per saltare le liste, a cercare l’amico dell’amico, a sperare che qualcuno “gli dia una mano”. In un mondo normale, si dovrebbe poter contare sul diritto. Qui si sopravvive grazie ai favori.
E intanto si svuota anche la speranza. Perché chi può emigra: non solo per lavorare, ma anche per farsi curare. Così la sanità pubblica, che dovrebbe essere il pilastro dell’uguaglianza, diventa la misura di una disparità sempre più crudele.
E anche quando la giustizia prova a intervenire, il sospetto è che serva a poco. Perché in questa terra, non c’è nemmeno certezza della pena. Gli arresti domiciliari si trasformano presto in ritorni al lavoro, le indagini si allungano, le condanne, quando arrivano, non restituiscono nulla a chi è rimasto senza cure. Non si ha più fiducia neanche nella giustizia, che appare spesso lenta, remota, inefficace. E allora, che senso ha denunciare? Che senso ha indignarsi, se chi sbaglia alla fine non paga mai davvero?
Non basterà arrestare dieci o venti medici per cambiare questa realtà. Bisogna riscriverla da capo, con coraggio e onestà. Bisogna restituire alla parola “pubblico” il suo vero significato. Bisogna ricordare che la sanità non è un privilegio, ma un diritto. E che, se oggi è malata, non serve solo curarla: bisogna guarirla. A partire da chi ci lavora, da chi la guida e, soprattutto, da chi la subisce ogni giorno sulla propria pelle.
Testata giornalistica registrata presso il tribunale di Catanzaro n. 4 del Registro Stampa del 05/07/2019.
Direttore responsabile: Enzo Cosentino. Direttore editoriale: Stefania Papaleo.
Redazione centrale: Via Cardatori, 9 88100 Catanzaro (CZ).
LaNuovaCalabria | P.Iva 03698240797
Service Provider Aruba S.p.a.
Contattaci: redazione@lanuovacalabria.it
Tel. 0961 873736