Il sovraffollamento registrato sabato scorso al pronto soccorso dell’Azienda ospedaliero-universitaria “Renato Dulbecco” non può essere letto come un episodio isolato o come una mera criticità organizzativa. È piuttosto il sintomo di un sistema che, senza un vero e strutturato rafforzamento della medicina territoriale, continuerà a scaricare sugli ospedali l’intero peso della domanda di salute dei cittadini.
La consigliera regionale del Partito democratico, Amalia Bruni, lo ribadisce con chiarezza: «La medicina territoriale non è un comparto secondario, ma il primo livello di assistenza e prevenzione, il filtro indispensabile che deve intercettare i bisogni sanitari prima che diventino emergenza».
La medicina territoriale significa assistenza primaria, significa poter contare sul medico di famiglia, sull’infermiere di comunità, su strutture di base in grado di erogare prestazioni rapide ed efficaci. Secondo Bruni: «È qui che si gioca la partita della prevenzione, evitando che problemi gestibili diventino situazioni acute che intasano i pronto soccorso. Un aspetto strategico è la presa in carico dei pazienti cronici. Diabete, Bpco, ipertensione, insufficienza cardiaca: sono malattie che richiedono continuità di cura e un approccio integrato tra medici di medicina generale, specialisti e operatori sanitari. La mancanza di un coordinamento territoriale costringe molti pazienti a rivolgersi agli ospedali anche per bisogni non emergenziali, con ricadute negative sia sulla qualità della loro vita che sull’efficienza del sistema».
Non meno grave è il venir meno delle guardie mediche in diversi territori della Calabria. Si tratta di una scelta che ha lasciato intere comunità scoperte soprattutto nelle ore notturne e nei festivi. «La chiusura delle guardie mediche — avverte Bruni — ha rappresentato un colpo durissimo per la medicina territoriale. Senza questi presidi, i cittadini non hanno alternative se non il pronto soccorso, che inevitabilmente si riempie anche per bisogni che potrebbero essere gestiti sul territorio».
Sono diversi anni ormai che la convenzione dei medici di medicina generale ha istituito nuovi strumenti associati (AFT e UCCP) che consentono l’associazione di più professionisti, ampliando l’offerta di servizi sia nei tempi che nelle stesse prestazioni. È affidata poi alla contrattazione regionale la modulazione e l’articolazione di tali strumenti, che dovrebbero incrociarsi con le Case di Comunità. Ecco, qui c’è un bisogno enorme di contrattazione, di nuovi strumenti per garantire servizi primari nelle aree interne e nei territori marginali. E a fronte di tutto questo si va delineando un vero e proprio fallimento del PNRR “Missione salute”.
Il DM 77 ha rappresentato una svolta, introducendo un modello più integrato e centrato sul paziente. Come ricorda ForumPA, la riforma ha riconosciuto la medicina territoriale come fulcro di un sistema sanitario capace di prendersi cura delle persone nel loro percorso di vita, e non solo nelle fasi acute della malattia.
«Non mancano le difficoltà: carenza di personale, scarsa integrazione con gli ospedali, risorse da gestire in modo efficiente. Ma le opportunità sono chiare: potenziare la medicina territoriale significa garantire equità, appropriatezza ed efficienza, migliorando l’accesso alle cure per tutti i cittadini, come evidenziato da Quotidiano Sanità – afferma ancora Bruni -. In una regione come la Calabria, dove le distanze geografiche e le fragilità sociali amplificano le disuguaglianze, la medicina territoriale diventa ancora di più un tema dirimente. Senza di essa, i pronto soccorso continueranno a restare saturi, gli ospedali sotto pressione, e i cittadini privati del diritto a una sanità di qualità».
«Non possiamo permetterci di ridurre la medicina territoriale a un ruolo marginale — conclude Bruni —. È da qui che bisogna ripartire, con coraggio e investimenti, perché la vera riforma della sanità non inizia nei grandi ospedali, ma nei quartieri, nelle case, nei piccoli comuni, dove ogni giorno si misura la salute delle persone».
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