di CARLO MIGNOLLI
Ci sono storie che in pochi conoscono e ancora meno raccontano. Fra queste, la vicenda della Fonderia di Mongiana, in provincia di Vibo Valentia, rappresenta un capitolo straordinario e dimenticato della storia d’Italia, un racconto che Eugenio Bennato ha deciso di riportare alla luce con il suo nuovo singolo intitolato proprio “Mongiana”, uscito il 22 novembre e secondo estratto dal suo prossimo disco di inediti, in arrivo il 10 gennaio 2025.
La Fonderia di Mongiana, costruita nel Settecento durante il Regno di Napoli, era il cuore pulsante del Polo siderurgico di Mongiana, un complesso industriale d’avanguardia che produceva manufatti in ferro e acciaio destinati a grandi opere, come il ponte sul Garigliano e le rotaie della ferrovia Napoli-Bologna. Alla metà dell’Ottocento, oltre 2800 operai e tecnici lavoravano in quella che era la più grande fabbrica dell’Italia preunitaria. Eppure, con l’Unità d’Italia, l’intero sistema metallurgico del Sud collassò: gli altoforni furono smantellati e trasferiti altrove, e la storia di Mongiana venne progressivamente rimossa dalla memoria collettiva e dai libri di storia.
Eugenio Bennato, con “Mongiana”, punta a infrangere questo silenzio, attingendo al ritmo e alla profondità della musica popolare calabrese per raccontare una Calabria diversa, capace di modernità, ma spesso relegata a stereotipi di arretratezza.
In questa intervista, il cantautore ci racconta il percorso che lo ha portato a scrivere Mongiana e riflette sul valore della memoria storica, sul legame con la Calabria e sui temi del nuovo disco.
Mongiana, come racconti nel testo, racconta una storia dimenticata dai libri di storia. Cosa l’ha spinta a riportarla alla luce?
«Io già conoscevo la storia di Mongiana, perché mi sono sempre occupato di raccontare vicende legate al Sud e, in particolare, agli eventi legati all’Unità d’Italia. La storia di Mongiana mi era familiare da tempo, e da anni avevo in mente di scrivere qualcosa a riguardo. Ciò che mi ha colpito profondamente è stata l’eleganza e la compostezza che ancora traspare dalle tracce degli altiforni e dell’attività industriale di quel luogo. Quest’estate, durante un concerto a Fabrizia, ho deciso di visitare il museo di Mongiana. Quella visita mi ha ispirato immediatamente: tornato a casa, ho preso la mia chitarra battente e ho cercato di unire le sonorità che sento dentro di me con la raffinata tradizione musicale popolare calabrese. È nato così il brano, quasi di getto, anche se la storia era già dentro di me. Durante la visita al museo ho trovato anche diverse pubblicazioni interessanti, come il libro “Le Reali Ferriere di Mongiana” di Danilo Franco, che ho iniziato a leggere. Al di là dei motivi storici che portarono alla chiusura delle ferriere, ciò che mi ha colpito è come quegli spazi conservino ancora l’eco dell’attività delle migliaia di persone che vi lavorarono. La mia canzone vuole dare voce a questa storia».
Nel brano parli anche di una Calabria capace di modernità, ma spesso non riconosciuta. Come pensi che narrazioni come la tua possano cambiare l’immagine del Sud? Credi che esista ancora un grande divario nella rappresentazione del Sud rispetto al Nord?
«Purtroppo, sì. Esistono ancora molti luoghi comuni consolidati che descrivono la Calabria come una terra pigra, incapace, legata all’assistenzialismo o, peggio, al malaffare. La realtà è ben diversa. Pensare che un tempo ci fossero fabbriche moderne, altiforni e una vera industria a Mongiana, poi smantellata, è un fatto che merita di essere raccontato. Ognuno può trarre le proprie conclusioni, ma è fondamentale che queste storie vengano conosciute. La grande lacuna è che quasi nessuno sa niente di Mongiana. Quando ho iniziato a lavorare al brano e ne ho parlato con altre persone, ho visto reazioni di stupore: sembra incredibile che una storia così importante sia rimasta sconosciuta».
Secondo lei, quali sono le cause di questa dimenticanza?
«Sicuramente c’è una componente politica. C’è stata, in passato, la volontà di associare il Sud a un’immagine di arretratezza, in modo da giustificarne la dipendenza e l’assistenzialismo. È un’immagine che va sfatata».
Passando a una domanda più personale, lei ha un forte legame con la Calabria, pur essendo nato a Napoli. Come descriverebbe il suo rapporto con questa regione?
«Sì, il mio legame con la Calabria è profondo e nasce da lontano. Da bambino, il mio maestro di musica, Giacomo Caridi, era di Roccella Ionica. Trascorrevo lì l’estate insieme a mio fratello Edoardo. Ricordo le splendide spiagge dello Ionio e, allo stesso tempo, le lunghe ore dedicate allo studio della musica. Tornai da quelle estati con un grande amore per la musica e per la Calabria. Questo legame è rimasto vivo negli anni, anche grazie al rapporto con l’artigianato calabrese, come quello dei liutai De Bonis di Bisignano e la tradizione della chitarra battente. È una regione che porto nel cuore e dove spero di tornare presto per altri concerti».
Infine, il suo nuovo album in uscita a gennaio quali temi affronterà? “Mongiana” è un’anticipazione di altre storie simili?
«In realtà, Mongiana è l’ultimo brano che ho scritto per il disco, ma ci sono altri episodi che raccontano storie significative della Calabria. Un esempio è “Torre Melissa”, che narra un fatto straordinario accaduto nel 2019. Durante l’inverno un’imbarcazione carica di naufraghi si arenò e gli abitanti del paese non persero tempo in chiacchiere: si gettarono in mare per salvarli tutti. È un episodio che fu raccontato poco, e credo che la musica possa aiutare a mantenerlo vivo nella memoria collettiva. La musica ha questa funzione: raccontare le storie del popolo. E quel giorno, il popolo di Torre Melissa dimostrò un’umanità straordinaria, in controtendenza rispetto alle polemiche sull’accoglienza».
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