"Mi sono sentito tradito". Lo ha detto Marco Martino, dirigente dello Sco della polizia, nel corso della testimonianza, resa oggi in tribunale a Torino, in cui ha ricostruito i passaggi dell'indagine che ha portato all'incriminazione di un collega con l'accusa di essere stato la "talpa" di un boss legato alla Ndrangheta.
Martino all'epoca dei fatti era capo della squadra mobile della questura torinese. Il poliziotto in questione - che ora compare fra la ventina di imputati del processo chiamato "Pugno di ferro" - è un ex sostituto commissario che dopo circa trent'anni nella "mobile", e un altro incarico in ambito istituzionale, era stato destinato a un commissariato cittadino; aveva poi preso un congedo per malattia e non era rientrato in servizio fino al pensionamento.
Contro di lui si procede per falso e rivelazione di segreto d'ufficio. Secondo le accuse, nel periodo di assenza fece sapere a Renato Macrì, personaggio che si ritiene legato alla consorteria 'ndranghetistica Ursino-Scali-Macrì di Gioiosa Jonica (Reggio Calabria), dell'esistenza dell'indagine nei suoi confronti. Gli inquirenti sono convinti che fra i due vi sia stato un incontro, in seguito al quale il presunto boss abbia cambiato il telefonino, che era tenuto sotto controllo anche per mezzo di un dispositivo trojan. In aula hanno testimoniato anche gli ispettori della squadra mobile che indagarono su di lui. Il processo 'pugno di ferro' è il prodotto di un'indagine che nel 2019 culminò in una serie di arresti per usura e riciclaggio.
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