di PAOLO CRISTOFARO
INTERDITTIVE ANTIMAFIA, RICORSI ACCOLTI DAL TAR E IL DIETROFRONT DEL CONSIGLIO DI STATO
Un ditta impegnata nella produzione di calcestruzzo, ma anche nell'attività di trasporto nell'area portuale di Gioia Tauro, ha ricevuto dalla Prefettura di Reggio Calabria diverse interdittive antimafia per oscuri legami con i potenti clan locali; interdittive impugnate dalla stessa davanti al Tar di Reggio Calabria che, in attesa di approfondimenti da parte degli organi inquirenti, nel 2018, accogliendo il ricorso, ha sospeso i provvedimenti antimafia e la revoca dell'autorizzazione, da parte dell'Autorità Portuale di Gioia Tauro, per operare nell'area.
Ora, con sentenza del 6 maggio 2020, il Consiglio di Stato è andato di fatto contro il Tar di Reggio, dando ragione alla Prefettura e al Ministero dell'Interno e, sostanzialmente, confermando le misure contro l'azienda. "La sentenza impugnata trascura il dato fondamentale della contiguità", scrive il Tar riferendosi alla gestione rimasta sostanzialmente familiare dell'azienda e "costituendo detta società un elemento di stabile collegamento con la cosca e fortemente interessata alle attività economiche intorno ai servizi portuali".
LE PARENTELE, IL PORTO, I SUBAPPALTI PER LE RETI STRADALI E GLI ELEMENTI DI CONTINUITA'
Gli amministratori dell'azienda, sostanzialmente gestita da un ristretto nucleo familiare, erano stati coinvolti in indagini e processi. L'azienda, oltre che ad occuparsi di operazioni di trasporto nell'area portuale di Gioia Tauro, la cui autorizzazione era stata rilasciata nel 2017, sarebbe legata anche a vicende di subappalti per la costruzione e la manutenzione stradale. I procedimenti penali, come spiegato dalla prima sentenza del Tar, riguardavano tra le altre cose "il sistema di spartizione criminoso dei subappalti di un tratto dell'autostrada Salerno-Reggio Calabria condotto con metodi tipicamente mafiosi da esponenti della cosca locale". Le vicende riguardavano "il rifacimento e ammodernamento dell'allora autostrada A3, Salerno-Reggio".
Due degli imputati, sempre legati al sistema imprenditoriale di appalti e subappalti, erano stati assolti nell'ambito dell'inchiesta, mentre "nel medesimo procedimento, il sopravvenuto decesso di uno degli imputati, già condannato in primo grado per associazione mafiosa ed estorsione aggravata, aveva determinato nei suoi confronti l'estinzione del reato per morte del reo", scrive il Tar. I sospetti sull'azienda, sollevati dalla Prefettura di Reggio Calabria, riguardavano non solo queste vicende penali, ma anche del contatti con altri imprenditori già raggiunti da interdittive antimafia e con soggetti vicini alle cosche locali di 'ndrangheta.
Pur accogliendo allora il ricorso, nel 2018, il Tar di Reggio aveva segnalato elementi degni di rivalutazione, alla luce sì della scomparsa di uno degli imputati, ma della continuità gestionale dell'impresa e dei possibili rapporti persistenti e sensibili di una possibile infiltrazione. "L'informativa deve essere annullata se l'esame dei fatti più recenti non convalida tale condizionamento", continuando che "è stato ritenuto insufficiente un contesto di mere frequentazioni non circostanziate, come pure risalenti nel tempo, rendendosene necessaria una congrua attualizzazione". Ma, costituitosi in giudizio al Consiglio di Stato il Ministero dell'Interno, ne è uscita una sentenza che ribalda la decisione del Tar di Reggio del 2018, che i giudici del Consiglio non hanno condiviso, riconfermando l'interdittiva.
L'ANALISI DEL CONSIGLIO DI STATO, LA GESTIONE IMMUTATA E IL RIBALTAMENTO DELLA SENTENZA
Per il Consiglio di Stato, appunto, sarebbero stati trascurati elementi importanti; elementi che potrebbero testimoniare un ancora permanente rischio di infiltrazione delle cosche nella compagine dell'impresa e negli appalti della stessa. "La sentenza impugnata trascura il dato fondamentale della contiguità del defunto con gli soci", contiguità confermata, come scrivono i giudici, già dalle precedenti sentenze ordinarie, "costituendo detta società un elemento di stabile collegamento con tale cosca, operante nel territorio di Gioia Tauro e fortemente interessata alle attività economiche gravitanti, anche, e tra l'altro, intorno ai servizi portuali."
Due amministratori, infatti, "avevano fatto parte della stessa compagine sociale riconducibile allo stesso nucleo familiare e alla stessa regìa collettiva, già contigua e asservita agli interessi". Sempre il Consiglio di Stato, contestando la decisione del Tar di Reggio, asserisce che "non poteva certo ritenersi che tale continuità fosse venuta meno." Gli stessi soci, dopotutto, erano stati coinvolti col defunto in procedimenti penali e con lui "avevano preso parte alla gestione della società, collegata agli interessi della potente cosca egemone sul territorio di Gioia Tauro." L'impresa è stata condannata dal Consiglio di Stato al pagamento di 8mila euro per il doppio grado di giudizio.
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