Dalla sua cella, Vito Martino, indicato come il principale organizzatore, avrebbe utilizzato i colloqui con i familiari, sia di persona che tramite videochiamate, per impartire ordini a sua moglie Veneranda Verni, ai figli Salvatore, Francesco e Luigi, e a Salvatore Peta, un altro membro chiave della cosca. Veneranda Verni, secondo le accuse, avrebbe gestito in prima persona le attività estorsive contro imprenditori e commercianti, oltre a occuparsi della raccolta dei guadagni provenienti dal traffico di stupefacenti, in collaborazione con Giuliano Muto.
Questo è il quadro emerge dalle accuse avanzate dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Catanzaro nell’ambito dell’operazione "Sahel", eseguita dai carabinieri della Compagnia di Crotone, che questa mattina ha portato all'emissione di 31 provvedimenti restrittivi: 15 detenzioni in carcere, 7 arresti domiciliari e 9 obblighi di firma.
‘Ndrangheta, operazione Sahel tra Catanzaro e Cutro: in manette 31 persone (I NOMI)
Inoltre, Verni avrebbe mantenuto rapporti con la cosca Mannolo, presente nella frazione San Leonardo, e avrebbe mediato in conflitti interni. Salvatore Martino avrebbe curato i contatti con la cosca Megna di Papanice, con cui erano sorti attriti, oltre a collaborare con la cosca Lanzino Patitucci di Cosenza per traffici legati alla droga. Carlo Verni, residente nel quartiere marinaro di Catanzaro, si sarebbe dedicato alle estorsioni nel capoluogo, mentre Francesco Martino avrebbe mantenuto legami con affiliati storici del clan Grande Aracri. Salvatore Peta, oltre a gestire i contrasti con i Megna, avrebbe seguito l’approvvigionamento di droga.
L’indagine ha inoltre fatto luce sul traffico di armi e droga, coinvolgendo membri delle famiglie Martino, Muto e Diletto. Gli indagati avrebbero gestito una rete di approvvigionamento di cocaina, hashish e marijuana, con le sostanze provenienti da Crotone, Cosenza, Reggio Calabria, Catanzaro e Brindisi, mentre la base operativa per lo stoccaggio e la gestione della droga era situata a Cutro.
Tra le accuse centrali emergono le pressioni esercitate ad un imprenditore, a cui Francesco Martino, Giuliano Muto e Veneranda Verni avrebbero chiesto denaro o l’assunzione di Francesco. Anche un amministratore di una società sarebbe stato costretto a versare un tributo tre volte l’anno da Salvatore Martino, nonostante questi fosse sottoposto a misure alternative alla detenzione. I membri della famiglia Martino e Veneranda Verni avrebbero imposto ai titolari dell’azienda Verdoro del Marchesato, Luigi e Antonietta Rotondo, il pagamento di 300 euro al mese come "contributo" al clan.
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