Operazione “Scott-Rinascita", il ruolo di Mancuso: "Apprezzato da giovane per l'atteggiamento tendente alla mediazione”   

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Luigi Mancuso
  19 dicembre 2019 14:05

di TERESA ALOI

Lo  definiscono “storico detentore del potere 'ndranghetistico formale e sostanziale su tutta la zona del vibonese, in virtù del proprio carisma criminale, degli strettissimi rapporti criminali con le cosche Piromalli di Gioia Tauro e Pesce di Rosarno, dei collegamenti con le più potenti famiglie 'ridranghetistiche del reggino”.

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Per gli investigatori Luigi Mancuso rappresentava il vertice assoluto dell'intera area, “cui facevano capo le altre articolazioni criminali (seppur nel contesto di dinamiche criminali in evoluzione, ha tentativi di maggiore autonomia e creazione di alleanze alternative, momenti di fibrillazione e scontro tra le varie componenti), mantenendo tale ruolo anche successivamente alla scarcerazione avvenuta nel luglio 2012 e per tutto il periodo successivo”.

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Lo hanno preso  su un treno di ritorno da Milano. Stava rientrando Luigi Mancuso. Nella "sua" Calabria.   Passo passo, per oltre 48 ore, i carabinieri  sono stati la sua ombra per scongiurare una sua eventuale latitanza,  come ha ricordato Giovanni Migliavacca, comandante del Ros Calabria. 

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L’ordinanza di custodia cautelare che ha portato all'arresto questa mattina di 334 persone sottoposte a misura cautelare e denominata "Scott- Rinascita" (LEGGI QUI),  oltre 1300 pagine , parla chiaro. Era lui, “l’elemento di vertice dell'articolazione di Limbadi, in qualità di promotore, organizzatore, capo e finanziatore del sodalizio con compiti di decisione, di pianificazione delle strategie e degli obiettivi da perseguirsi, e delle azioni delittuose da compiere, della gestione dei rapporti e degli equilibri con i gruppi rivali, della protezione dei membri del proprio sodalizio, dirigendo e organizzando il sodalizio, assumendo le decisioni più rilevanti, impartendo le disposizioni o comminando sanzioni agli altri associati a lui subordinati, curando rapporti con le altri articolazioni  dell'  associazione ed i relativi capi, dirimendo contrasti interni ed esterni al sodalizio da lui capeggiato, commissionando o consumando direttamente estorsioni, continuando a svolgere le sue funzioni di capo anche durante la detenzione, sia all'interno del carcere, sia all'esterno, veicolando messaggi attraverso i sodali, occupandosi delle operazioni volte al riciclaggio dei proventi del sodalizio ed all'intestazione fraudolenta a terzi prestanome delle attività e beni riconducibili al gruppo”.

Era lui  che si occupava “ direttamente anche di uno dei settori strategici della cosca, quale quello delle speculazioni immobiliari nel settore turistico alberghiero; mantenendo i rapporti con esponenti di altre articolazioni della ‘ndrangheta  e con i "colletti bianchi" (professionisti, imprenditori, politici, appartenenti alla massoneria), quali Pittelli Giancarlo, di riferimento per la risoluzione dei problemi dell'organizzazione”.

Ed era definito  "il Supremo”, proprio in virtù della sua posizione apicale, “apprezzato sin da giovane per l'atteggiamento non aggressivo e tendente alla mediazione”.   

A tal punto che “la politica criminale così imposta, attraverso la concordia e il consenso, in effetti produceva effetti inimmaginabili, quali la condivisione dei progetti criminali dettati dal boss e l'assoggettamento "spontaneo" della popolazione che, perfino, di propria iniziativa andava a pagare le estorsioni direttamente a Luigi  Mancuso” Perché lui, Luigi Mancuso, era “ben consapevole del fatto che una politica criminale improntata alla "guerra", che genera "risse", che alimenta discordia e contrasti è intrinsecamente fragile e mette a repentaglio la solidità del gruppo o dei gruppi criminali, sia dall'interno che dall'esterno” spiegano gli inquirenti.

Era lui  “il tetto del mondo” “il numero uno in assoluto”.

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