Pasqua 2020. Franco Cimino: "Questo nostro venerdì santo alla ricerca dell'uomo nuovo"

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Franco Cimino
  10 aprile 2020 22:09

di FRANCO CIMINO

Oggi la Chiesa cattolica, sul finire della sua Settimana Santa, celebra la passione e la morte di Gesù. È un giorno molto atteso dai fedeli e non solo. Con i suoi riti e le sue processioni per le vie di paesi e città, da secoli, anche in questo appena iniziato, il venerdì santo appartiene alla cultura popolare e alle tradizioni più radicate nella storia di una comunità. Fede e religiosità popolare, spiritualità e folclore, si mescolano così intensamente da estendersi anche ai non credenti, e ai più lontani da queste manifestazioni religiose. La quarantena che costringe la gente a restare a casa e alle parrocchie di annullare riti e processioni fa di questo venerdì un giorno ancora più triste. Manca l’animo popolare che accompagna questo giorno. Manca la spiritualità che le città pervadono.

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Manca quel silenzio di lutto che accompagna in processione le statue di Maria e del Suo figlio morto. Un silenzio di lutto sentito, interrotto soltanto dal respiro dei partecipanti e dal calpestio disarmonico dei loro passi. Le preghiere ritmate e i canti lenti, non sono né suoni, né rumori. Non voci, non musica. Sono corpo orante di quel silenzio. Sarà suggestione da psicologia collettiva, sarà emozione sentita, sarà battito di cuore che s’innalza verso l’Alto, preghiera nuda, ma la partecipazione di ciascuno dentro un unico sentimento è così forte, viva, da trasformarsi in pianto e in cedimento, per i più resistenti, della ragione al divino. In convincimento, che duri poco o molto, che Dio ci sia, che quell’immagine mostrata in pubblico rappresenti davvero quel Gesù di cui parlano i Vangeli. Il figlio che Dio ha mandato in terra per emendarci dei nostri peccati e condurci alla salvezza, attraverso il sacrificio della croce e la solennità della morte. Oggi, che siamo chiusi nelle nostre case e in tutte le prigioni della vita, questa ricorrenza, questa immagine e questa certezza di fede, assume un valore più pregnante per la maggior parte degli italiani, ne sono sicuro.

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Pregando o domandando, ci si rivolge a Gesù, che muore, questo venerdì più che la prossima più Santa Domenica, per invocare non solo la salvezza dei nostri corpi e la sconfitta del male che ci ha rubato sicurezza e libertà e la restituzione dei contatti umani e gli spazi in cui incontrare quei soggetti che per lungo tempo abbiamo trascurato, quasi dimenticato, i figli, i genitori, i fratelli, i vecchi. Ci rivolgiamo a Gesù, non per esorcizzare la nostra paura della morte, che a reti unificate, la comunicazione pubblica ci fa vedere in diretta, attraverso quei camion militari che rendono più anonime le morti, e quasi ostile la terra lontana che li riceverà. No, non è per questo. O, almeno, non solo per questo. Ci rivolgiamo a quel Crocifisso e a quel figlio che storicamente vi è incarnato, per comprendere il significa della morte. Capire che valore essa ha nei confronti della vita. E quale rapporto vi potrà essere tra il vivere e il restare in vita, tra il morire e il finire, tra la vita non vissuta e la infinita agonia esistenziale che l’accompagna. Capire, come vincere l’angoscia per una tecnica che, nonostante la ininterrotta cavalcata verso le sue certezze e le sue grandi conquiste, non mantiene le sue promesse antiche. Quelle cioè di allungare la vita per sconfiggere la morte e di cancellare malattia e dolore dalla faccia della terra.

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Capire che premio l’umanità riceverà dalla Via Crucis che tanti Gesù e Maria stanno in questa settimane, e in questo Venerdì Santo, facendo lungo quel calvario doloroso costituito dalle ambulanze, dalle corsie d’ospedale, dalle strade nascoste e dalle stazioni abbandonate, dove migliaia di altri Gesù e Maria cercano un solo breve respiro, un grammo d’aria, per restare ancora qui, e gli altri che, pure a migliaia, solo in questo nostro piccolo paese, non ce la fanno e ci lasciano senza una carezza di figlio o di madre che li conforti nell’ultimo passaggio. Capire se questo, sì proprio questo Venerdì, sarà l’ultima stazione della Via Crucis, dopo la quale ci sarà la risurrezione di questo pianeta tradito dai mille Giuda e derubato da cento ladroni di ogni bellezza e della più semplice umanità.

Se, infine, cambieremo noi e cambierà il mondo con noi. Che abbiamo finalmente capito la più grande delle lezioni. Quella che la vita non è nostra. È un dono, della natura o di Dio. E, pertanto, non possiamo disporne liberamente se non nell’atto più nobile di metterla al servizio degli altri. Per edificare, qui sulla terra, la Città dell’uomo. La Città della Pace. Quella vera, costruita con i mattoni della libertà e della giustizia, dell’eguaglianza e della fraternità. Anche cristiana, di un Uomo che prende su di sé le sofferenze altrui e cammina sotto il peso di un pesante legno lungo la strada della liberazione. Di tutti, nessuno escluso.

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