Un reportage per capire cosa furono per l’intellettuale piemontese gli otto mesi di vita costretta in Calabria. La stanza in fitto dove visse, lasciata intatta come tributo alla storia dal proprietario Tonino Tringali
11 settembre 2020 09:53di GIOVANNA BERGANTIN
Come sarà apparsa ad un Cesare Pavese di 26 anni la Calabria del ’35, in quella domenica pomeriggio estiva in cui giunse a Brancaleone, accompagnato dalla forza pubblica, con una condanna al confino? Cosa pensò di quel Paese del profondo sud Italia avendo negli occhi le Langhe e la signorile Torino con i suoi portici nebbiosi frequentati da intellettuali, giornalisti e colte signorine emancipate? Cosa gli passò per la mente quando arrivò alla stazione, lui che nel cuore portava i suoi libri e i suoi tormenti amorosi? Cosa immaginò l’americanista col sogno del nuovo continente di quel luogo remoto della jonica reggina dove avrebbe dovuto scontare tre anni di confino?
“Chi vuol conoscermi si affatichi a leggermi e impegnarsi” scrive Pavese.
È un primo indizio, quantomeno di metodo, per cercare qualche risposta.
Già, perché Pavese si impegnò parecchio durante la breve esistenza a scrutare la sua condizione interiore, a meditare sulla vita, sui sogni, sui ricordi, ad interrogarsi su come stare al mondo e poi a riflettere e descrivere la sua partita con la vita. Una violenta ricerca, senza sconti, di cui ci ha lasciato un ricco carteggio. Per capire, allora, tocca esplorare le sue carte, leggere i suoi fogli manoscritti, sfogliare la corrispondenza tenuta da Brancaleone con le persone care, seppure in tempi di censura, e la prima parte del suo diario a cui affida pensieri e confessioni del difficile mestiere di vivere. Così gli scritti da “con(finato) di Brancaleone”, come lui stesso si definisce ironicamente con l’amico Sturiani, suo primo fornitore di libri nel periodo calabrese (lettera del 20 settembre ‘35), così le numerose lettere inviate in via Lamarmora 35 a casa della sorella Maria. Dopo il telegramma del 5 agosto del 1935, dove annuncia: “Arrivato a Brancaleone Calabria Albergo Roma Spedite soldi spese impianto segue espresso”, nella lettera del 9 così racconta il suo viaggio e l’arrivo a Brancaleone Calabro (LEGGI QUI LA LETTERA ALLA SORELLA MARIA PDF)
La stazione di Brancaleone
Tranquillizza, informa sulle quotidianità ed il suo stato, chiede libri classici e stranieri. Sempre alla sorella Maria, scrive: “La mia stanza ha davanti un cortiletto, poi la ferrovia, poi il mare. Cinque o sei volte al giorno mi si rinnova così la nostalgia dietro i treni che passano. Indifferente mi lasciano invece i piroscafi all’orizzonte e la luna nel mare che con tutti i suoi chiarori mi fa pensare solo al pesce fritto. Inutile, il mare è una gran vaccata.” (Lettera del 19.08.1935)
La vista dalla stanzetta a Brancaleone
“La camera è quanto di meglio si potesse trovare. E’ stata un’occasione trovarla col letto, perché qui di solito danno la camera e poi bisogna comprarsi il letto” (lettera del 24 agosto 1935)
“Ora mi sono deciso e mangio a mezzogiorno in pensione, e alla sera frutta”. (24 settembre 1935)
“Qui un po’ fa caldo un po’ fa umido e, fin che non abbia imparato il ritmo, ci soffrirò. Non ho ancora una volta infilato il paletot. Solo, di notte, lo stendo sul letto”. (Brancaleone 12 novembre 1935).
“Passo il tempo imparando bei proverbi popolari. Esempio: Corna di mamma/corna di canna;/corna di soro/corna d’oro; corna di mugliere/corna vere”. Costretto dal freddo ho adottato il braciere. Si tratta di un guerresco bacile di rame munito di maniglie, in cui si mette cenere e, al centro, brace; poi si poggiano i piedi su un orlo di legno che corre tutt’intorno, e si passa la sera. Costando troppo il bacile di rame, ho preso un catino di scarto”. (19 novembre 1935).
Scrive l'11 dicembre del 1935:" Non capisco perché voglio tornare a Torino. Qui, a parte la pelle, sto benissimo e le vere seccature cominceranno una volta a casa; non ultimi, i vostri piagnistei. Penso di sposarmi qui e comprare un bambino che a due anni dica già “cornutu” e “porcherusu".
Il 23 dicembre del 1935, Pavese racconta l’atmosfera e l’umanità che lo circondano. Per la novena, pastori e ragazzotti per il concertino di pifferi, ciaramelle e triangoli, e “la gente che mi vede ora si asciuga col dorso della mano una lacrima, perché pensano che farò Natale fuori casa, cosa che per loro è peggio di un pugno in testa. Ci sono le pie donne che mandano chi un tortellino, chi i fichi secchi, chi gli aranci, chi altro”. Nella lettera del 26 dicembre del 1935 scrive “Certo il clima e il vitto mi dà al sangue. Non bisogna dimenticare che in questo paese al tempo dei Borboni, si ammazzava per un’occhiata. E’ colpa dei peperoni e della latitudine…”. Nella lettera del giorno dopo, definita “della serenità”, dice “La gente di questi paesi è di un tatto e di una cortesia che hanno una sola spiegazione: qui una volta la civiltà era greca. Persino le donne che, a vedermi disteso in un campo come un morto, dicono “Este u’ confinatu”, lo dicono e lo fanno con una tale cadenza ellenica che io mi immagino di essere Ibico e sono bello e contento…… niente è più greco di queste regioni abbandonate. I colori della campagna sono greci. Rocce gialle o rosse, verdechiaro di fichindiani e agavi, rose di leandri e gerani, a fasci dappertutto, nei campi e lungo la ferrata, e colline spelacchiate brunoliva” .
L’11 settembre confida ad Augusto Monti, suo professore di liceo “Qui i paesani mi hanno accolto molto umanamente, spiegandomi che del resto si tratta di una loro tradizione e che fanno così con tutti. Il giorno lo passo “dando volta”, leggicchio, ristudio per la terza volta il greco, fumo la pipa, faccio venir notte; ogni volta indignandomi che, con tante invenzioni solenni, il genio italico non abbia ancora escogitato una droga che propini il letargo a volontà, nel mio caso per tre anni. Per tre anni! Studiare è una parola; non si può niente che valga in questa incertezza di vita, se non assaporare in tutte le sue qualità e quantità più luride la noia, il tedio, la seccaggine, la sgonfia, lo spleen e il mal di pancia. Esercito il più squallido dei passatempi. Acchiappo le mosche, traduco dal greco, mi astengo dal guardare il mare, giro i campi, fumo, tengo lo zibaldone, rileggo la corrispondenza dalla patria, serbo un’inutile castità”.
La stanza dove alloggio' Pavese
Vive noia e tedio, con la pipa in bocca nelle monotone giornate sempre uguali, ripetitive, vuote. Lotta con l’asma e gli scarafaggi, all’umido della sua stanzetta, nelle lunghe notti insonni. Nutre nostalgia per la sua Terra, è malinconico e introspettivo.
In una lettera del 27 novembre inviata all’amico Sturani lamenta “Ora è cominciato l’inverno sotto forma di piogge, venti torrenziali e umidità notturne, che per la mia asma sono tanto pepe. Questo è brutto, perché, essendo qui il sonno l’unico passatempo non esasperante, sentirselo troncare tutte le notti moltiplica per la durata dell’esilio. Io faccio poesie senza gusto e senz’appetito e m’accorgo che il mestiere di poeta non serve nemmeno a ammazzare il tempo, perché l’interesse al lavoro viene rarissimo, e troppe sono le ore che è necessario stare tetramente concentrati su un’idea che non c’è. Era già brutto a Torino questo, pensiamo qui”.
Esprime un rapporto conflittuale col mare. Scrive a Monti, il 29 ottobre: «Del mare ho fatto la mia sputacchiera. Lo costeggio e mi ci spurgo, provocandolo a drizzare le corna e inabissare tutto il continente. Ma lui, carogna, mi lecca i piedi” E sempre a Mario Sturani, il 27 novembre: «Il mare, già così antipatico d’estate, d’inverno è poi innominabile: alla riva, tutto giallo di sabbia smossa; al largo, un verde tenerello che fa rabbia. E pensare che è quello di Ulisse: figurarsi gli altri”.
Ne capiremo di più in seguito, quando Pavese delega al protagonista del romanzo “Il Carcere” i ricordi calabresi, con una rielaborazione dell’esperienza del confino. “Stefano era felice del mare: venendoci, lo immaginava come la quarta parete della sua prigione, una vasta parete di colori e di frescura, dentro la quale avrebbe potuto inoltrarsi e scordare la cella”.
“Poi il mare mi aggredì a Brancaleone, mi sentivo più solo e disperso davanti alla sua distesa infinita che mi pareva dovesse per sempre dividermi dalla terra. Era come un’altra prigione. Ma poi mi sono vendicato. Ho voluto essere io ad aggredire il mare d’improvviso, a scoprirlo…. ed ora posso starlo a guardare e persino tenergli compagnia” riporta in uno scritto Oreste Lajolo.
Uniche note positive, la scrittura delle poesie e l’inizio del suo diario, il 6 ottobre del 1935. Invia richieste di lunghe liste di libri a familiari ed amici, prende animo quando dà indicazioni e si adopera per la pubblicazione e sottoscrizione delle sue poesie, alle quali continua a lavorare. A Brancaleone ne scrive sedici, ben identificabili. Descrive il paesaggio agreste del sud con i suoi personaggi insieme a motivi lirici di esilio e nostalgia. Contenute, in minuta, in un block notes, con un elenco diviso per mesi. Le prime 5 entrano nella prima edizione di “Lavorare stanca”, in preparazione in quel periodo. Le altre, del ’36, entrano nell’edizione Einaudi del 1943 e sono le uniche a portare nell’indice oltre l’anno anche il mese, per evidenziare che erano nate durante il confino. L’ultima scritta da Brancaleone “Lo steddazzu”, la stella del mattino in dialetto, ha la data del 9-11 gennaio ’36.
Lo stabile dove vi era il bar Roma a Brancaleone
L’esperienza del confino a Brancaleone, l’isolamento forzato tra solitudine e silenzio lo portano a riflettere, ad appuntare pensieri e sensazioni, con data e luogo, su fogli che legge e rilegge. Questi appunti manoscritti, dal ’35 al ’50, pubblicati postumi ne “Il mestiere di Vivere”, svelano e ci accompagnano man mano nel laboratorio artistico e umano di Pavese. “Poiché immagino – scrive il 19 ottobre – che nessuna mia esperienza possa perdersi e il progresso consista in un sempre più comprensivo macinare esperienze, gettando le nuove sulle vecchie”. Maturerà la convinzione di passare dalla poesia alla prosa nel costante ragionare sul rapporto con l’arte e la sua poesia “Se figura c’è nelle mie poesie, è la figura dello scappato di casa che ritorna con gioia al paesello, dopo averne passate d’ogni colore e tutte pittoresche, pochissima voglia di lavorare, molto godendo di semplicissime cose, sempre largo e bonario e reciso nei suoi giudizi, incapace di soffrire a fondo, contento di seguir la natura e godere una donna, ma anche contento di sentirsi solo e disimpegnato, pronto ogni mattino a ricominciare: i Mari del sud insomma” (10 novembre 1935). E ancora, il 16 febbraio ’36 “Debbo imparare a prendere questa rovina futile, questa faticosa inutilità come un benedetto dono – quale ne hanno solamente i poeti – come un tendone davanti alla rappresentazione che dovrà poi cominciare. …… Quale mondo giaccia di là di questo mare non lo so, ma ogni mare ha l’altra riva e arriverò. Mi disgusto ora della vita per poterla assaporare un’altra volta”.
Il periodo di confino trascorso a Brancaleone, finito il 15 marzo ‘36, gli incontri, le immagini, le atmosfere e le suggestioni sono le condizioni, l’humus per riflessioni estetiche ed esistenziali che maturano lo scrittore, lo foggiano, ne segnano lo spirito artistico e di vita, come lui stesso riporta negli scritti auto analitici, ricchi di introspezione, che accompagneranno tutta la sua esperienza futura e riaffioreranno nelle successive opere autobiografiche, restituendone i tratti nei protagonisti dei suoi libri.
Ma per capire a fondo il percorso dobbiamo raggiungere Brancaleone, percorrerne la strada che affianca la linea ferrata di costa, affacciarsi a guardare quel mare “costretto tra le tamerici e sterpi, agavi e tristi oleandri” per vedere “le scogliere che diradano al mare”. Dobbiamo tornare a Brancaleone per raccogliere le testimonianze, la memoria orale, gli episodi anche inediti raccontati dai suoi abitanti e per ritrovare i paesaggi e le immagini-racconto degli scritti di Pavese che portiamo in spalla per sicurezza.
Sebastiano Stranges, Tonino Tringali e Carmine Verducì
Come allora, rifacciamo il percorso dalla piazza della Stazione e usciamo sulla strada principale, raggiungiamo il vecchio stabile del bar Roma, dove Pavese abitò nei primi giorni del suo arrivo e dove usava trascorrere le giornate fumando la pipa e incontrando gli abitanti del posto.
“Gli fu consigliata la casa di Bruno Labate alla quale si accedeva dalla via Nazionale per mezzo di una stradella ad angolo retto a due passi dalla caserma e dal palazzo dai gerani rossi dove vi era Concia. – riporta Domenico Zappone nel suo “Il confino di Pavese” – Una sola stanza che prendeva luce da un finestrino e dalla porta davanti che dava su un orticello, quindi il terrapieno della ferrovia e il mare”. Riconosciamo il percorso e la stanza, qui il tempo si è come fermato. Ritroviamo la stanzetta con l’affaccio sul cortiletto e l’olivo attorcigliato prima della ferrata e della salsedine del confine col mare.
La stanza dove alloggiò Pavese rimasta come allora
“Arrivano tanti gruppi di studiosi e studenti che hanno letto Pavese, mi limito a narrare ciò che non sanno” – ci racconta il proprietario Tonino Tringali della “dimora del confino di Cesare Pavese” – E’ rimasta identica ad allora come tributo alla storia. “U prufissuri”, come chiamavano Pavese da queste parti, dava ripetizioni di latino e greco ai giovani del posto. Uno di loro, ormai scomparso, mi rassicurò sulla disposizione degli arredi e mi raccontò che sullo scrittoio dove faceva lezione vedeva giorno per giorno ammonticchiarsi fogli di scrittura” – spiega Tonino Tringali che fa l’avvocato a Messina ed è un appassionato mecenate, conoscitore e divulgatore dell’esperienza di Pavese a Brancaleone. “Con un gruppo di cultori e interessati della proloco promuoviamo incontri e giornate di studio, ma non cerco contributi pubblici – afferma risoluto l’avvocato Tringali.
Lo scrittoio nell'alloggio a Brancaleone
“Lo scoglio “lungo” era riservato alle donne, ma Pavese, non conoscendo l’abitudine di queste parti di dividersi la spiaggia, si fermava a guardare il mare e la montagna– ci racconta Carmine Verduci che con la Pro loco guida ai percorsi pavesiani del confino – Aveva diverse conoscenze e sappiamo che in occasione di una ricorrenza venne invitato nel vecchio nucleo storico e ascoltò la tarantella. Con don Oreste Politi instaurò un rapporto di amicizia e una corrispondenza che continuò fino alla sua morte”.
“Si conobbero a Brancaleone e poi si incontrarono e si frequentarono a Torino dove mio padre era sergente maggiore - ci racconta il figlio di don Oreste Politi, il Giovannino Catalano del romanzo “Il Carcere” – il primo incontro avvenne al suo arrivo fuori dalla stazione. Mio padre, che era un costruttore edile, un notabile, era appoggiato allo schienale girato al contrario di una sedia. Aveva buoni rapporti col maresciallo e quindi Pavese ne fu avvantaggiato, sicuramente perché era un intellettuale. Qui erano al tempo tutti fascisti, eccetto alcuni antifascisti acclarati, come il dottor De Angelis che era socialista. A Pavese piacevano la buona tavola e le donne, a Torino portava mio padre a mangiare al “Luculliano” - specifica il figlio di don Politi sollecitato a scavare nella matassa dei suoi ricordi - Una volta sola, mi raccontò mio padre, lo portò a caccia, ma non faceva per lui, era andato solo per tenergli compagnia. I suoi interessi erano la lettura e la scrittura. Abbiamo molte lettere conservate. Mantennero una corrispondenza epistolare fino all’ultimo, prima della morte. Erano discorsi comuni tra due amici. Tutti gli anni, mio padre gli faceva una spedizione di arance e fino a qualche anno fa ero in contatto con la nipote Cesarina”. Si riferisce a Cesarina Sini, mancata all’età di 91 anni nel 2015, una delle due nipoti di Pavese, che fu la memoria familiare dello scrittore e del suo archivio (6000 carte a cui si aggiungono i manoscritti dell’Einaudi), donato per volontà della madre nell’ 84 al centro Gozzano- Pavese dell’Università di Torino.
E alla fine “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi / questa morte che ci accompagna / dal mattino alla sera, insonne / sorda come un vecchio rimorso / o un vizio assurdo. (CESARE PAVESE, Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, 22 Marzo 1950)
Il 27 agosto del 1950, con un laconico addio scritto sul frontespizio del suo Leucò (Foto 9) e una confezione semivuota di barbiturici, nella camera 346 dell’Hotel Roma della sua Torino, Cesare Pavese lascia la vita, di cui aveva tanto parlato. Il 9 di settembre avrebbe compiuto 42 anni appena.
Il testo stilato a penna sul frontespizio di Leuco' ,ritrovato 70 anni fa nella stanza 346 dell'hotel Roma a Torino
Testata giornalistica registrata presso il tribunale di Catanzaro n. 4 del Registro Stampa del 05/07/2019.
Direttore responsabile: Enzo Cosentino. Direttore editoriale: Stefania Papaleo.
Redazione centrale: Via Cardatori, 9 88100 Catanzaro (CZ).
LaNuovaCalabria | P.Iva 03698240797
Service Provider Aruba S.p.a.
Contattaci: redazione@lanuovacalabria.it
Tel. 0961 873736