di FRANCESCO BIANCO
Le appena concluse elezioni in Sardegna lasciano in eredità un insegnamento, evidentemente di difficile apprendimento. La vittoria di Alessandra Todde disvela un maledetto vizio italico,strettamente ancorato alla questione inveterata della fedeltà al proprio capo, lontano da qualunque riferimento alle capacità reali di affrontare le questioni che affliggono i nostri territori. Una sconfitta cocente, certo una sconfitta di Giorgia Meloni, in conseguenza della quale però sarei prudente nel manifestare toni trionfalistici. Ciò per alcune ragioni di merito. Innanzitutto, per la evidente particolare forza attrattiva del candidato Todde, il cui curriculum non lasciava dubbi circa la sua competenza e capacità. È stata in modo particolare una sua vittoria, favorita dalla mossa saggia – quasi un beau geste – della Schlein, la quale senza scendere in competizioni di partito, ha accettato di buon grado la candidata di Giuseppe Conte.
A questo occorre aggiungere la vittoria di misura, che, sebbene potenzialmente diversa sommando teoricamente la percentuale del candidato Soru, soltanto nei termini nei quali si è posta ha potuto contare su una piattaforma programmatica condivisa, fuor di dubbio catalizzata dalla oggettiva forza della candidata. Difficilmente sarebbe successo unendo tutti e favorendo una sorta di “Unione” di prodiana memoria, di cui già in passato si è verificata la poca sostanza. Altro elemento da non sottovalutare, per non essere trionfalistici, è il particolare narcisismo del leader dei 5 stelle, il quale, parlando di “campo giusto” e non di “campo largo”, già pone dei paletti in un tentativo di concepimento di un’alleanza di governo. Abbiamo assistito ad una vittoria di una coalizione alla quale forse intimamente non crede proprio sé stessa. A tal proposito, ritengo lungimirante il commento del Direttore del quotidiano “Il Manifesto” – Fabozzi – il quale parla di una rondine sarda che non fa primavera.
La verità è che le elezioni regolate dal principio maggioritario si possono vincere solo con un candidato di valore ed un programma condiviso credibile. Questo spiega la patologia alla quale assistiamo da anni, di una disaffezione alle urne determinata da scelte di fondo lontane dalle reali istanze dei territori.Tornando al problema di metodo e al vizio italico cui facevo cenno, l’attuale Premier, pur avendo raggiunto alcuni obiettivi sul piano internazionale, continua con un errore di fondo, perseverando adobbedire ad una concezione “fideistica” nella scelta delle persone. Se ciò è ammissibile all’interno di un partito, e non so fino a qual punto, non lo è certamente quando si tratta di gestione della “cosa pubblica”, quindi di ricoprire ruoli Istituzionali. In verità, un male molto radicato nel nostro sistema e alle nostre latitudini. La pervicacia della scelta di un candidato – Truzzu –, letteralmente impostosolo perché particolarmente a lei vicino, senza corroborare tale scelta da elementi di qualità, ha generato l’esito finale. Non senza rilevare che questo modo di operare ha dimostrato una scarsa saggezza politica, se ricordiamo che Berlusconi aveva praticamente “consegnato”, secondo una logica distributiva ineludibile in una coalizione, le candidature a Presidente delle Regioni del nord agli alleati. Se un candidato alla carica di Presidente è anche Sindaco del capoluogo di Regione, con un consenso ai minimi termini nella città che ha amministrato, è certo che il risultato non può essere quello sperato. Ciò nonostante, ad onta della necessità di recuperare esponenti capaci per i ruoli di stretta amministrazione, si continua ad alimentare un malcostume che genera i ritardi storici nell’azione di governo dei territori e non solo. Non è forse figlia di tutto ciò anche la costante denuncia della incapacità di spesa e di gestione, in una condizione di particolare necessità di riforme (pure strutturali)? Questo è il prezzo che si paga quando si costruisce una classe dirigentetenendo presente solo la stretta fedeltà al capo, senza premiare coloro che costruiscono un percorso “professionale” sulla base di elementi di merito e di competenza. Un monito severo per la Meloni, essendo notoriamente breve nel nostro Paese la via che da piazza Venezia conduce a piazzale Loreto.
Con ciò, non intendo sminuire l’importanza della vicinanza leale nei rapporti personali in politica, ma, da tempo, non è più possibile che questo metodo venga trasfuso periodicamente nella scelta di figure determinanti nella gestione del bene pubblico. L’esito elettorale, peraltro, nel versante del centrodestra porterà ad una inevitabile resa dei conti con l’alleato leghista, in un climain cui il “salvinismo” è in caduta libera, come dimostrano le basse percentuali raggiunte dalla Lega. Un partito, quest’ultimo, che da una genesi e denominazione strettamente nordiche, ha perseguito con poca credibilità una connotazione nazionale, allontanandosi dalle reali esigenze di quella classe imprenditoriale locale, dalle cui istanze aveva tratto profonda ispirazione, con il supporto teorico e profondo del pensiero dell’ideologo Gianfranco Miglio. Mi chiedo cosa direbbe oggi Miglio,ispiratore perfino della trasformazione dello Stato italiano in senso “confederale”, di fronte all’ossimorica (a tacer d’altro) battaglia che Salvini sta conducendo per la realizzazione del ponte sullo stretto di Messina. Uno straordinario paradosso, per chi ha sempre rivendicato esclusivamente le ragioni della “Padania”, ed avvertimento per chi segue Salvini alle nostre latitudini.
Ma, a ben vedere, le contraddizioni albergano in entrambi i versanti. Sul piano nazionale, con l’attuale legge elettorale, senza coalizione non si vincono le elezioni. Ma le coalizioni non dovrebbero comprendere tutto e il loro contrario. Basti pensare che oggi abbiamo una Premier divenuta atlantista, rinnegando con disinvoltura quanto predicato in campagna elettorale, mentre il suo Vicepremier fatica a denunciare le responsabilità del leader russo in drammatiche vicende. Procedendo su questa via, anche nel presunto “campo giusto” tanto caro a Giuseppe Conte, avremmo contraddizioni altrettanto evidenti, specie in politica estera. Da qui, forse la necessità risiede nel sedersi intorno ad un “tavolo giusto”, per mettere mano innanzitutto alle regole che disciplinano le questioni fondamentali di questo nostro Paese. Così come sarebbe auspicabile una correzione nei toni e nella sostanza nel versante oggi governativo, allo stesso modo sarebbecredibile una proposta nel campo (seriamente) riformista che accantoni istanze estreme, lontane da prese di posizioni ideologiche non conferenti nell’affrontare le sfide alle quali è chiamata l’Italia.
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