Rinascita Scott. Il caso del post su Fb pubblicato un mese fa dal pentito Mancuso: "Non sono stato io, non ho l'accesso"

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images Rinascita Scott. Il caso del post su Fb pubblicato un mese fa dal pentito Mancuso: "Non sono stato io, non ho l'accesso"

  19 aprile 2021 22:03

Di EDOARDO CORASANITI

È un post su Facebook del collaboratore Emanuele Mancuso che scalda gli animi durante l’udienza di oggi nel processo “Rinascita Scott”. Durante il suo controesame, l’avvocato Alessandro Diddi vuole capire come mai il 17 marzo scorso il figlio di Pantaleone Mancuso (alias “l’ingegnere”) accede al suo profilo personale e pubblica un’immagine con scritto “Siamo l’effetto di una vita collaterale tagliata male”. Il pentito conferma che si tratta del suo account ma non sa dare una giustificazione e al microfono dice che “quel post non l’ho fatto io perché i dati di accesso non sono nella mia disponibilità ma della mia famiglia”. E mentre monta il caso sul post sbucato dal nulla, la pm Annamaria Frustaci chiarisce che circa un mese fa è avvenuto un accesso davanti alla polizia di giudiziaria con l’account di Mancuso: la Procura, dice il magistrato, documenterà quanto avvenuto cercando di capire se l’attività di pubblicazione dell’immagine coincide con quanto richiesto dalla polizia per il proprio lavoro di indagine. Eppure, poco prima, Emanuele Mancuso sostiene che quel profilo era sotto sequestro e che non veniva più utilizzato perché non ne possedeva i codici di accesso. Per un collaboratore di giustizia il rapporto con gli esterni, familiari e non, rappresenta un punto delicato del percorso. Se alterati, il rischio è di mettere a repentaglio la genuinità delle dichiarazioni stesse.

L’avvocato Guido Contestabile, che ha iniziato a ripercorrere il percorso collaborativo di Emanuele Mancuso a partire dal momento in cui decide di iniziare a parlare con i magistrati della Procura. Viene cristallizzato un momento. Quando Emanuele Mancuso parla con i pm nella sua famiglia ci sono contrapposizioni perché “si sono creati due gruppi che si stavano ammazzando tra di loro”. Da una parte i Rizzo-Cuturello e dall’altro suo padre (Giovanni), “Luni Scarpuni” e suo fratello. Ed Emanuele? “Io non avevo niente contro nessuno ma sicuramente stavo più con mio padre”.  E così si è passato al setaccio del suo passato ed in particolare della sua infanzia, quando il padre lo denominava “surici” o “Rosaria”: il primo perché dove “passavo io facevo danni. E credo che il danno più grosso glielo abbia fatto con la collaborazione”. E “Rosaria” per due motivi: era un uomo libero e parlava assai tanto da costringere la sua famiglia a non parlare con lui di alcune cose. Come anche confessato dallo stesso Emanuele durante un interrogatorio e poi confermato oggi di nuovo di fronte alle domande dell’avvocato Contestabile.
Ritornando al suo passato, Emanuele dice  che la sua famiglia (madre e padre) non vedeva di buon occhio le sue rapine o furti: “Un Mancuso non poteva fare queste cose”, spiega il pentito ma “io le facevo lo stesso perché ero alternativo”.  Poi il tempo è passato ed Emanuele è diventato maggiorenne. “La situazione è cambiata quando sono diventato maggiorenne e quando a dirmi qualcosa era Luigi Mancuso, mio zio, io ne ero “innamorato” da sempre”.
Emanuele Mancuso non ha smentito di aver utilizzato cocaina in passato.

Controesame anche dell’avvocato Francesco Muzzopappa, che ha chiesto a Mancuso di Gregorio Niglia e Giuseppe Tomaino. In entrambi i casi, il legale gli fa notare come ci siano contraddizioni e dichiarazioni che non compaiono nel verbale illustrativo.

Hanno controesaminato Emanuele Mancuso anche gli avvocati Giovanni Vecchio, Daniela Garisto e Antonio Porcelli.

Nella prima fase dell’udienza, l’avvocato Michelangelo Miceli ha chiesto chiarimenti in ordine alla posizione di Agostino Papaianni - indicato dal pentito come un sodale della famiglia Mancuso ed imprenditore di riferimento della cosca - con particolare approfondimento sulla vendita della moto ad acqua dal pentito al figlio dell’imputato. E ancora: la condivisione tra i due giovani nella squadra di calcio dello Joppolo e le informazioni sullo stesso apprese dal teste per opera dei suoi congiunti. Situazioni che avrebbero dimostrato, secondo Mancuso, il rapporto di Papaianni con il clan ma che, secondo il difensore, sono già state ampiamente fotografate in due sentenze: “Dinasty” e Black Money”. Nel primo caso, l ’imputato, che era anche parte lesa, fu assolto, e nella seconda, nei suoi confronti è caduta la contestazione del reato associativo mafioso.

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Parola all’avvocato Leopoldo Marchese. Alle sue domande, il collaboratore ha evidenziato che  “Pasquale Gallone era l’uomo di riferimento di Luigi Mancuso”, continuando poi il controesame verso il rapporto con i suoi zii: “Mai provato rancore”. Inoltre, il testimone ha detto di aver saputo dell’avvicinamento tra i due “Luni” quando, durante una udienza del Tribunale delRiesame a Catanzaro, incontra Raffaele Barba: “MI disse, vedi che “Scarpuni” con la tua famiglia sono in ottimi rapporti”. Circostanza che fu confermata anche dai miei genitori; quindi Luni “Scarpuni” aveva chiuso con Cosma e si era messo con mio padre”.

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L’avvocato Giuseppe Di Renzo si è concentrato sul rapporto tra il testimone e diversi soggetti, tra cui quelli di una vittima di estorsione da parte di Emanuele e Giuseppe Mancuso: “Ricordo di avergli venduto degli stupefacenti, 1-2 chili, ed eravamo rimasti che lui mi avrebbe portato i soldi. Ma ciò non avvenne e quindi lo minacciai per telefono dicendogli che se non avesse saldato il debito sarei andato a prenderlo”.

Mancuso ha parlato del rapporto tra Salvatore Marasco e Giuseppe Mancuso (classe 1990): “Con quest’ultimo che avrebbe dato dei soldi al primo, lamentandosi poi che non gli fossero stati restituiti”. Alla domanda di Di Renzo, il testimone ha messo in luce di “non aver mai chiesto se quei soldi fossero di origine usuraria, né le cifre, né infine il motivo di tale doglianza di mio cugino, anche se so che lui, come il padre Giovanni, praticava usura”.

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Il legale ha acceso i riflettori sulle contraddizioni nel racconto del pentito sulla questione della rissa del Punta Cana e lo “scudo” di Mancuso verso Angelo Barbieri che rischiava di essere linciato. In particolare, nel momento in cui descrive che avrebbe visto Peppone Barbieri, poche ore dopo, deciso ad aggredire lui e suo cugino Giuseppe. “Lei come si spiega quel suo atteggiamento visto che si era posto a difesa del congiunto?” chiede l’avvocato: “Questo dovreste chiederlo a Barbieri anche se io non ne ho mai compreso il motivo”, risponde il collaboratore.  Riaccesa nella memoria anche la vicenda avvenuta nel 2018 per i lavori per la strada a Capistrano: “La ditta mi portò una busta con denaro e io non sapevo per quale motivo, al che chiamai mio cugino Giuseppe, che era il tramite più immediato per arrivare a Luigi, affinché si facesse dire da questi cosa avremmo dovuto farne; lo zio rispose che ce li potevamo tenere”. Capistrano “il cui territorio rientra, come unitarietà della ’ndrangheta sotto i Mancuso, ma che, specificatamente, sta sotto la cosca Anello”. Il pentito ha detto di non aver “mai chiesto soldi a quella azienda perché non volevo creare problemi, sono stati loro a recapitarmeli direttamente e se lo zio ha detto che ce li potevamo tenere allora è perché effettivamente problemi non ce n’erano.

Domani
si torna in aula con nuovi controesami da parte di altri avvocati. Mercoledì invece la parola torna alla Procura che esaminerà Emanuele Mancuso in relazione al verbale di collaborazione reso sui fatti contestati nella nuova indagine “Petrolmafia srl”.

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