Safe City, l'archiviazione non purifica Palazzo De Nobili

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Palazzo De Nobili
  11 giugno 2019 12:46

di GABRIELE RUBINO

L’archiviazione non lava via la sensazione di non pulito nella vicenda Safe City. Il procedimento penale sulla giunta Abramo, nella versione del 2013, teso ad accertare i reati di abuso d’ufficio e di falso ideologico nell’appalto del sistema di videosorveglianza della città di Catanzaro finisce accantonato nei polverosi cassetti della Procura (leggi qui la richiesta di archiviazione). Certo, però, la lettura dell’informativa di accompagnamento della Digos è un colpo, postumo, alla credibilità di alcune prassi consumatesi a Palazzo De Nobili negli anni scorsi. Una società israeliana, il referente della stessa al contempo in possesso di quote di una società di comodo con sede a Cipro, il progetto di un’intera città vigilata dagli obiettivi di una selva infinita di telecamere. C’erano insomma molti elementi per una spy story internazionale in piena regola mescolati ad una buona dose di “forzature” amministrative.

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COME NASCE IL GRANDE FRATELLO ISRAELIANO Il progetto Safe City fa capolino per la prima volta negli atti amministrativi del Comune di Catanzaro il 10 agosto del 2012. Quel giorno la giunta di allora adotta un atto di indirizzo nei confronti del comandante della polizia municipale Giuseppe Antonio Salerno affinché affidi alla società Bunkersec Ltd, con sede a Tel Aviv, la redazione a titolo gratuito del mega piano per sorvegliare la città. La prima stranezza, annotata nell’informativa della Digos, è che l’offerta formale dell’azienda israeliana era arrivata appena ventiquattrore prima, spedita da Vincenzo Saladino, rappresentante della Bunkersec. Sicuramente la trattativa era stata avviata già prima, notano gli ufficiali, anche perché lo stesso sindaco Sergio Abramo aveva inserito Safe City nelle sue linee programmatiche presentate in Consiglio comunale pochi giorni prima, all’indomani dell’avvio del suo terzo mandato. L’impulso della Giunta viene recepito da Salerno e così il 21 agosto del 2012 si arriva alla firma del contratto fra il Comune e la società straniera.

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L’APPALTO BLINDATO DA 23 MILIONI C’è una clausola però dell’accordo che stona: l’ente pubblico si impegna ad affidare alla sola Bunkersec la successiva realizzazione del progetto. La gratuità iniziale si trasformava così in un appalto blindato da 23,2 milioni euro. Infatti, la relazione finanziaria al piano «faraonico», come più volte ribattezzato dalla Digos, arrivava a quella cifra. E non poteva essere altrimenti visto che la base di partenza erano “appena” 900 telecamere da installare lungo le vie della città catanzarese. «Di fatto – si legge nell’informativa- la procedura seguita dall’Amministrazione Comunale ha creato i presupposti per un affidamento diretto di una fornitura di 23 milioni di euro più il 15% di aumento, senza gara di appalto, in palese violazione dei dettami del vigente Codice degli appalti». Con la delibera 57 dell’8 marzo 2013 l’esecutivo comunale approva lo studio iniziale, avviando la fase del reperimento dei fondi. È questo l’atto con cui, secondo gli inquirenti, si sarebbero configurati i reati poi archiviati.  

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SALTA PERCHE’ NON C’E’ LA COPERTURA FINANZIARIA Nel frattempo in città associazioni e alcuni esponenti della minoranza cominciano ad opporsi a quello che viene presto ribattezzato il “Grande Fratello” di Catanzaro. Partono gli esposti (da cui parte la stessa inchiesta) e il ricorso al Tar. Il Comune tira dritto finché non arriva la doccia gelata dalla Regione da cui doveva arrivare il finanziamento. Gli investimenti in sicurezza, per tutta la provincia di Catanzaro, possono arrivare al massimo a 6 milioni, di cui solo poco più della metà iscritti come contratti locali di sicurezza. Il progetto catanzarese valeva più di tutta la dotazione calabrese. Così salta. La giunta non può che prenderne atto con una delibera di metà luglio 2013, virando su un progetto (Tesic) molto più contenuto (da 100 mila euro).  

ARMI E PARADISI FISCALI, I PERSONAGGI DIETRO IL PROGETTO Il lavoro della Digos è stato meticoloso anche nel cercare altri indizi a supporto delle trame borderline sottostanti al progetto di videosorveglianza. Nell’informativa tornano così alcune intercettazioni già note della vicenda Catanzaropoli con protagonisti Massimo Lomonaco e Domenico Tallini che, allora, da assessore nella giunta Scopelliti avrebbe avuto le giuste entrature per spingere sulla burocrazia regionale per chiedere della fattibilità dell’operazione. E poi gli approfondimenti sul misterioso Vincenzo Saladino. Referente della Bunkersec e responsabile della Cooperazione bilaterale Calabria-Israele, ma allo stesso tempo «segnalato per riciclaggio», dalla Dda di Reggio Calabria nell’indagine “Artù”. Il manager possedeva partecipazioni in diverse società che, con il canonico gioco delle scatole cinesi, conducevano alla H&S Security Integration Consulting & Security Ltd con sede nel noto paradiso fiscale di Cipro e che come oggetto sociale aveva la produzioni di armi.  «In tale contesto, non si può escludere che dietro il faraonico progetto Safe City, che si sarebbe dovuto effettuare nella città di Catanzaro, si sarebbero potute celare persone che, in forma anonima, avrebbero potuto beneficiare e trarre lucrosi vantaggi dalla sua realizzazione», recita la chiosa della Digos. L’assenza di fondi comunitari ha sventato il pericolo.   

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