di EDOARDO CORASANITI
Colpevole e sei anni di reclusione: il gup di Catanzaro, Matteo Ferrante, in rito abbreviato, ha condannato l'avvocato Armando Veneto per una vicenda di presunta corruzione processuale nei confronti del giudice Giancarlo Giusti, già una volta conclusa con una archiviazione. Principale imputato è proprio il legale tra i più noti avvocati in Italia, classe 1935 (difeso dagli avvocati Clara Veneto e Giuseppe Milicia), accusato di corruzione e concorso esterno in associazione mafiosa per episodi di 12 anni fa.
Già rinviati a giudizio Vincenzo Puntoriero classe 1954 (difeso dagli avvocati Salvatore Staiano e Vincenzo Cicino), Gregorio Puntoriero classe 1979 (difeso dagli avvocati Salvatore Staiano e Vincenzo Cicino),
Nello specifico, secondo l'accusa della Direzione distrettuale antimafia guidata da Nicola Gratteri, i sei imputati in concorso avrebbero dato (o comunque fatto dare) 120 mila euro (40mila euro ciascuno) al giudice Giusti. Obiettivo: indurre il magistrato, in qualità di magistrato componente del collegio del Tribunale del Riesame di Reggio Calabria, quale giudice relatore ed estensore a ribaltare le ordinanze di custodia cautelare in carcere emesse dal GIP presso il Tribunale di Reggio Calabria il 10 agosto 2009. Il progetto criminoso avrebbe dovuto così favorire Bellocco Rocco, Gallo Rocco Gaetano e Domenico Bellocco. Su queste basi si è costruito l'ipotesi del reato di corruzione in atti giudiziari, aggravato dall’art. 416 bis .1 cp, a carico degli indagati attuali, che da queste accuse si sono difesi per presunti episodi commessi a Reggio Calabria, Palmi, Rosarno tra il 10 e il 27 agosto 2009.
ARMANDO VENETO GIA' ASSOLTO UNA VOLTA. Già nella prima fase dell'inchiesta era spuntato il nome di Armando Veneto, tra i più noti legali d'Italia, ma poi gli inquirenti lo avevano ritenuto estraneo al patto corruttivo finalizzato alle facile scarcerazioni sulle quali, all'epoca, aveva indagato l'allora procuratore aggiunto della Dda, Vincenzo Luberto, a parere del quale l'avvocato Veneto neanche avrebbe fatto valere la propria competenza forense, in vista del Tribunale del riesame davanti al quale aveva difeso i Bellocco.
Quando l'avvocato Veneto è venuto a conoscenza della richiesta di rinvio a giudizio e ha affermato che "non mi sorprende perché è il segno dei tempi che l'ufficio del PM per procedere nei miei confronti sovverta il valore delle prove di innocenza come tali valutate nel 2014 dalla stessa Procura di Catanzaro e dai Giudici che le hanno esaminate nelle fasi cautelari e di merito del processo 'Abbraccio'. Tant'è; ma non basterà la singolare idea dell'ufficio procedente ad oscurare verità e ragione. Né ad intimidirmi. Mi difenderò nel processo non solo utilizzando le prove dell'innocenza già acquisite e contenute da quasi un decennio nel fascicolo. Ma dimostrando anche i fatti ulteriori che con il mio interrogatorio avevo offerto e che l'accusatore ha ignorato".
Subito dopo la seconda indagine, numerosi sono stati gli atti di solidarietà e vicinanza dimostrati all'avvocato Veneto: tutti convinti che, coerentemente con il dettato costituzionale, un'accusa e un'indagine non può rappresentare uno stigma di colpevolezza e un'inversione del principio di innocenza.
IL DUBBIO La Procura aveva negato il suo coinvolgimento sei anni fa, definendolo un errore di interpretazione. Ma a distanza di 11 anni dall’inizio di quella indagine, Armando Veneto, decano delle Camere Penali, quello che per tutti è semplicemente "Il maestro", è finito di nuovo nel mirino della Dda di Catanzaro. Con un’accusa pesantissima: corruzione aggravata e concorso esterno. Nelle sue mani ci sono solo 11 pagine, quelle che documentano l’avviso di conclusione delle indagini e poi la richiesta di rinvio a giudizio.
Assieme a lui ci sono altre sei persone: Domenico Bellocco, alias “Micu u Longu”, Vincenzo Puntoriero, Gregorio Puntoriero, Vincenzo Albanese, Giuseppe Consiglio e Rosario Marcellino. La settima, quella che di questa storia rappresenta il centro, non c’è più. Si tratta di Giancarlo Giusti, l’ex giudice condannato per aver intrattenuto rapporti con la ‘ndrangheta ed essersi fatto corrompere per aiutarla, scarcerando i vertici del clan Bellocco, decapitato dagli arresti dell’antimafia di Reggio Calabria. Giusti si è suicidato nel 2015, a pochi giorni della conferma in Cassazione della condanna per quei suoi rapporti proibiti. Un gesto maturato, spiegò allora il suo legale, Giuseppe Femia, proprio a seguito della riapertura dell’inchiesta sulla scarcerazione dei tre esponenti della cosca Bellocco che ora vede coinvolto anche Veneto. Una storia iniziata nel 2009 e rimasta in un cassetto per anni, fino a quando, nel 2014, i sette indagati non ricevettero un avviso di garanzia. In quell’elenco, però, il nome del penalista non c’era.
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