Il caso Spirlì è un cosetta, una piccola cosa di cui non varrebbe la pena neppure parlare. Il caso è lui, Nino Spirlì. Nel senso che se ciò che dice crea spesso un casototto, il problema è lui. Per questo non bisogna neppure parlarne. Invece, se ne parla sempre molto, come se i problemi della Calabria fossero tutti concentrati nella sue mani. D’altronde, non è la prima volta che il personaggio, per la smania di apparire, combina qualche guaio chiamiamolo verbalistico. Appare evidente che la sua eccentricità, il suo carattere, il suo modo di vivere, abbiano bisogno di stare al centro dell’attenzione. Chi fa della provocazione sterile, cioè sul niente finalizzato al niente, la psicologia insegna, lo fa per coprire una delle due cose, o ambedue insieme: la propria fragilità e la mancanza di contenuti del suo operare. Insomma, è come dire “ non ho da dire di me, e faccio parlare di me”. Se non sei un Andy Warrol o un Gigi Meroni d’altri tempi, questo è il meccanismo che si muove. La migliore risposta in questi casi sarebbe sempre quella dell’indifferenza, del lasciar perdere, di non mettere quell’aspirante protagonista al centro dell’attenzione e del palcoscenico.
Io che di Spirlì avevo scritto in una analoga occasione pochi giorni dopo la sua nomina assessorile, dinanzi alla sua ultima uscita pittoresca in quel di Catania, avevo deciso di riderci su e di non dire nulla. Anche sulla presa di “ vicinanza” del presidente della Regione, signora Santelli, ho tenuto le mani lontane da penna e tastiera e la bocca chiusa. Certo, mi ha fatto una certa impressione sentire una donna, un avvocato, un parlamentare di lungo corso con vent’anni di vita romana sulle spalle, dichiarare che Spirlì sia la persona più colta che conosca e dare di quelle sue frasi “ catanesi” la spiegazione che si tratti di idiomatica applicata alla linguistica calabrese. Avrebbe potuto dire che si era spiegato male dato il contesto, che era stato frainteso nelle intenzioni, che se ne era dispiaciuta e altro ancora. Ma non lo ha fatto. Ha scelto invece di sorvolare sulla sensibilità delle persone e di misurare la sua cultura sull’altezza di quella del suo assessore. Insomma “ siamo tutti Spirlì “. Come nuovo biglietto da visita potremmo dire che va meglio. Non avrei detto nulla dicevo, Ma Nino di Taurianova, Calabrese doc quindi, che ha vinto ( a questo punto lo si potrebbe dire) le elezioni amministrative portando nel suo comune un sindaco della lega, così riducendo il dispiacere del suo capitano per aver perduto il comune più importante a pochi chilometri più sotto, Reggio Calabria), non si ferma. Su questa ultima sua uscita non solo non sta zitto, ma rilancia e su un binario assai sensibile, quello del diritto alla libertà di parola. E, allora, qualcosa va detta, dopo le tante, non tutte appropriate, di questi giorni. Libertà di parola. Dirsi libero di utilizzare liberamente “ fino alla morte le parole “ frocio, ricchione, negro”non è certo una conquista eroica in una società democratica e sempre più liberata dai pregiudizi e dalle rigidezze ideologiche del passato. Ma a chi può fregare che Spirlì lo dica e poi rivolto a chi e da quale postazione lo si dica? Non è questo il problema. Il problema sta nella concezione della libertà di parola, costituzionalmente garantita. Un intellettuale, come Spirlì viene ritenuto, di più se è anche un artista, come dalla Santelli viene considerato, deve sapere che libertà e parola, sono due termini autonomi e ricchi di significati specifici. Prima di essere abbinati stanno da soli e dicono molto di quel sono e vogliono essere. Libertà è l’essenza vera dell’essere umano, il suo respiro vitale, il battito del cuore ritmato sulla vita dell’umanità. Questo dice Libertà di se stessa. E dice ancora, che essendo nata con l’individuo è da sola che essa conferisce al venuto al mondo la qualità di persona e a ciascuna persona il diritto all’eguaglianza senza condizioni sociali applicative. Parola è lo strumento che l’intelligenza umana ha creato per comunicare a tutti il valore della libertà, la sua Bellezza e i modi in cui essa possa fare bene agli altri, all’umanità. Una sola cosa dicono all’unisono: responsabilità. Libertà e Parola sono guidate da una forza intrinseca, la responsabilità appunto. Ma anche questo termine ha un suo immodificabile significato. È quello che obbliga la persona a non considerare illimitato il proprio uso della libertà e della parola. Ovvero, renderle risorse per la vita degli altri, strumenti che facilitano la ricerca della felicità di ogni essere umano e la realizzazione della pace nella società o almeno della serenità dei luoghi in cui siamo chiamati ad operare. Abbinati. questi due termini, questo concetto rafforzano.
Libertà di parola, non rappresenta, quindi, la liberazione dell’istinto individuale, ma al contrario una limitazione per ambedue, una sorta di corda che li trattiene, laddove la preposizione “ di” funge da memoria della responsabilità. La Libertà che si autolimita e la parola che vuol dar conto del suo movimento, e risponderne, rappresentano il massimo della forza buona, due pilastri della Democrazia che ogni giorno si rinnova. Il problema creato, senza necessità sociale e suo merito personale, non è se Nino Spirlì abbia diritto di dire ciò che vuole, e quelle tre parole in particolare. Le dica pure se si diverte. Il problema non è neppure se quelle parole “ frocio, ricchione e negro” , da quella estrema leggerezza pronunciate, possano offendere un frocio o un negro (in una società civile indicano solo una delle peculiarità della persona, quelle di omosessuale e nero color della pelle, pertanto non contestabili da alcuno). Il problema è la deresponsabilizzazione delle stesse nel momento in cui quelle parole possono prendere, volontariamente o non, la via della violenza e dell’odio tra le persone sul negativo principio del contrasto a ciò che si vuol considerare diversità menomante.
Il problema è che Nino Spirlì è l’assessore di una regione e un assessore quando parla, anche davanti allo specchio del suo bagno, parla a nome di tutta la regione e non del partito o della maggioranza cui appartiene. Se il presidente che l’ha nominato lo considerasse un grande artista, avrebbe dovuto lasciarlo all’arte a cui l’ha rubato. Probabilmente, avrebbe non solo potuto fare meglio che qui, ma di certo si sarebbe potuto esprimere con quella libertà di espressione che in talune arti è più libera. Il problema, infine, forse il più preoccupante, a mio parere, è che rispetto a queste stravaganti e libere uscite della parola dell’assessore alla cultura della Calabria, né oggi né in altre occasioni, si sia levata una voce anche solo di rimprovero o di raccomandazione all’equilibrio, da parte della gran parte degli artisti, degli uomini di cultura, delle associazioni artistiche e culturali, calabresi. C’è da riflettere su questo.
Franco Cimino
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