
di RITA TULELLI
C’è un momento, spesso invisibile all’opinione pubblica, in cui il carcere smette di essere solo un luogo di pena e diventa un confine sottile tra la vita e la morte. È quanto accaduto nel carcere di Catanzaro, dove il tempestivo intervento della Polizia Penitenziaria ha salvato un detenuto che aveva tentato di togliersi la vita.
Un episodio che non può essere archiviato come semplice cronaca, perché racconta molto di più di ciò che appare. Dal punto di vista criminologico, il gesto suicidario in ambito detentivo è l’espressione estrema di un disagio profondo, alimentato da isolamento, perdita di riferimenti affettivi, senso di colpa e fragilità psicologica. Il carcere, se non adeguatamente supportato da attenzione umana e prevenzione, può amplificare queste sofferenze fino a renderle insostenibili. In questo contesto, la Polizia Penitenziaria assume un ruolo fondamentale che va ben oltre la funzione di vigilanza: diventa presidio di umanità, osservatore attento del disagio, argine concreto alla disperazione.L’agente che è intervenuto non ha soltanto svolto il proprio dovere, ma ha incarnato il senso più alto della funzione istituzionale: la tutela della vita. Quel gesto rapido e deciso dimostra come la sicurezza in carcere non significhi solo prevenire evasioni o mantenere l’ordine, ma anche proteggere chi, pur avendo sbagliato, resta una persona portatrice di diritti e dignità. La Polizia Penitenziaria opera quotidianamente in un equilibrio delicato tra fermezza e sensibilità, spesso in condizioni difficili e con carichi emotivi enormi, assumendosi una responsabilità che raramente viene raccontata. Questo episodio ci invita a guardare il carcere con occhi diversi e a riconoscere il valore di chi, dietro le mura, lavora per evitare che la pena si trasformi in una condanna irreversibile. Difendere la vita dei detenuti significa difendere i principi fondamentali di una società civile, e la Polizia Penitenziaria, nel silenzio delle sezioni e dei corridoi, ne è uno dei pilastri più importanti.
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