Qualche giorno fa, Matteo Renzi è uscito dal partito democratico. Si potrebbe dire, tanto tuonò che piovve.
Questa notizia, da molto tempo ventilata, metaforicamente prolunga un’estate politica tanto turbolenta quanto inaspettata. E’ nato, quindi, il nuovo partito “Italia Viva”. Ora, liberando il campo da facili incertezze, dichiaro, senza indugio, di non essere d’accordo con tale scelta. Quantomeno per un ragione di tempo. Senza ipotizzare alcun processo alle intenzioni, ritengo che la suddetta decisione non contenga alcunchè di razionale, ma nasconda, al contrario, soltanto un autentico tatticismo dettato da motivazioni personali. Non comprendo le ragioni di un abbandono di un partito, che ha pedissequamente realizzato tutto quanto fosse contenuto nei desiderata di colui che va via. Qual è il motivo? Il “non comando io”? Ritorno più avanti su tale aspetto. E’ stato proprio Matteo Renzi, con grande abilità, ad aprire ai 5 stelle, spiazzando sostanzialmente il leader leghista Salvini, apertura seguita dal partito democratico. Bene, realizzato ciò, Renzi esce dal partito che ha assecondato il suo volere. Ora, non c’è dubbio che Matteo Renzi, per il quale non nascondo di avere avuto simpatia, rappresenta uno dei pochi talenti presenti sulla scena politica italiana. Ma temo che il suo principale avversario sia proprio se stesso. Mi spiego meglio. Nella sua brillante, fino ad ora, carriera politica, specialmente da segretario del PD, ha certamente dimostrato di avere lungimiranza e notevole capacità di leggere il futuro politico di un Paese.
Al contempo, ha commesso errori di non poco conto. Errori dettati dal suo ego smisurato e dalla voglia di “marcare il territorio”, costi quel che costi. La prova regina di ciò che sostengo è stata la cattiva gestione del referendum costituzionale, che pure aveva in sé contenuti importanti per lo sviluppo e l’ammodernamento dell’Italia. La sua capacità si era manifestata nel governare un partito rispettando le motivazioni poste a fondamento della nascita del partito democratico stesso. Capacità evidente di fare sintesi, nell’ambito di una vocazione riformista e pluralista. Non dimentichiamo la notevole performance alle elezioni europee del 2014. Tutto ciò avveniva nel solco di quella vocazione maggioritaria, di veltroniana memoria, la quale doveva essere corroborata dalla capacità di attrazione e di fare alleanze con le altre forze progressiste. Ricordiamo che il PD è nato nella logica di un sistema maggioritario. E’ seguito, indubbiamente, l’inasprimento che ha caratterizzato la segreteria Renzi, determinando in poco tempo l’evanescenza della capacità di unire. A tanto si aggiunga, accanto ad importanti risultati sul lato dei dati economici, una scarsa risposta alle esigenze di protezione che erano richieste (ad onor del vero lo sono tutt’ora) da intere strutture sociali della Repubblica.
Ritornando ai giorni più recenti, assistiamo ora alla nascita del governo Conte 2. In tale contesto, la decisione di fondare un nuovo partito certamente contribuisce a snaturare l’essenza del partito democratico e, direi anche, la sua ragion d’essere di partito plurale e riformista. Penso fermamente che le forze sovraniste debbano essere contrastate da un soggetto forte, comprensivo anche delle istanze moderate. Dicevo, non comprendo le ragioni, quantomeno nella tempistica. La logica avrebbe, infatti, consentito la possibilità di una rottura in tempi diversi. Più precisamente, o dopo alcuni mesi dall’inizio dell’attività di governo, con l’accertamento della mancata attivazione delle politiche riformiste programmate dal governo in carica, o, al contrario, prima e senza dare l’appoggio a tale esperienza governativa, in aperta rottura quindi con quanto sarebbe stato successivamente deciso dal vertice del partito democratico. Tale ultima opzione, certamente più coerente, è stata quella seguita da Calenda. Una scissione, in sostanza, è concepibile dopo un dramma o una rottura di tipo concettuale, oppure dinanzi ad una nuova idea di fare politica. Ma separarsi nel modo in cui è avvenuto, per così dire “a freddo”, appare un modo fin troppo calcolato e meditato. Una pura tattica insomma. E’ paradossale partorire una uscita da un partito subito dopo aver concesso la fiducia ad un governo, sposando a pieno, anzi ispirando, la linea del partito di provenienza. Tutto ciò è aberrante.
A sostegno di quanto affermo pongo un’altra riflessione. L’atto politico forse più dirompente del governo Renzi è stato il Jobs Act. Bene, il governo Conte 2 ha già affermato, almeno per ora, che tale misura legislativa non è in discussione. Detto questo, capirei una scissione che avvenisse domani, anche icasticamente, di fronte ad un’azione di governo che ridiscuterebbe in modo radicale ad esempio tale provvedimento. Quanto è avvenuto determina una frantumazione degli interessi in gioco, frantumazione evidentemente lontana da quella sintesi oggi indispensabile per fronteggiare le questioni della società italiana. Senza tacere del fatto che la creazione di un ulteriore soggetto politico, si presuppone a questo punto di natura centrista, si muove nell’alveo di una logica proporzionale, da sempre avversata da Matteo Renzi, proiettandolo indietro di 30 anni. A questo punto mi sorge un interrogativo. Sulla base di cosa questo cambio di idea? Il ritorno ad un sistema elettorale che tanto male ha fatto in passato, in cui istanze improbabili e prive di vera rappresentanza erano idonee ad ingolfare una produttiva attività di governo, celano il desiderio di sentenziare ai tavoli delle decisioni importanti. Nulla di più. Di fronte all’incedere delle nuove sfide ritengo che questo non sia più consentito. Una nazione, tra le maggiori industrializzate del mondo, chiamata ad affrontare i processi di trasformazione di una società deve avere considerevole capacità decisionale. Una moderna democrazia, necessita della capacità di governo dei meccanismi decisionali, unitamente all’inevitabile risvolto della responsabilità, per cui non può essere pregiudicata da un sistema politico-elettorale ingessato, che provochi ritardi e mancanza di risposte per le esigenze dei consociati. La democrazia è sintesi e rappresentanza degli interessi che si registrano in una collettività.
Non è rappresentazione e soddisfacimento di interessi personali e di bottega, finemente celati dietro lo scudo di falsi interessi collettivi. Ed in tale contesto, il Parlamento non può e non deve essere un agglomerato di gruppi leaderistici, del tutto scollato dalla realtà del Paese. Per tale motivo sostengo con vigore che la scissione operata da Renzi nuoce gravemente ad una moderna democrazia. Solo all’interno di un partito realmente rappresentativo è possibile un serio confronto atto a far rispettare le moderne esigenze di una collettività. Un leader è tale se è in grado di esercitare con autorevolezza una certa influenza nelle scelte che contano. Non va via da un consesso sol perchè non riesce ad esercitare un’azione di comando diretto.
Qualcuno in passato ha detto che “il potere logora chi non ce l’ha”. Ora, con questi chiari di luna, spero vivamente che non sia logorata l’Italia.
Francesco Bianco
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