Uranio impoverito, la cura c'è (a Catanzaro) ma lo Stato non se ne accorge

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  08 luglio 2019 00:07

di GABRIELE RUBINO

Hanno preso parte alle missioni di pace nei Balcani. Hanno assolto al loro dovere di militari in nome dello Stato italiano. Finite le operazioni, a distanza di anni, migliaia di soldati sono stati costretti a combattere un’altra battaglia: quella per la vita. Tornati a casa molti di loro sono risultati affetti da differenti patologie neurodegenerative e da tumori. Effetti presumibilmente dovuti all’esposizione ai metalli tossici presenti sui campi da guerra in Kosovo e Bosnia ed Erzegovina. Tutti hanno pensato alla diagnosi ma nessuno alla cura.

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GLI ULTIMI ATTI IN PARLAMENTO E GLI IMPEGNI DEI MINISTRI- Nonostante, nelle ultime settimane, sia stata depositata una relazione in Parlamento che negherebbe il collegamento fra le missioni operative in Bosnia e l’insorgenza, gli stessi ministri della Difesa e della Salute, Elisabetta Trenta e Giulia Grillo, si sono affrettati a precisare che molto presto ci saranno interessanti novità. Il documento (riferito al periodo di analisi dal 2007 al 2017) è stato di fatto prodotto senza guida scientifica (pagina 8 del documento) e sarà presto superato. Il ministro Trenta ha annunciato la costituzione di un tavolo tecnico presso il suo dicastero che studierà nuovi dati rielaborati per arrivare entro la fine dell’estate alla prima legge a difesa delle vittime da uranio impoverito.

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I METALLI TOSSICI SONO VELENI. PERCHE’ SOLO POCHI HANNO PENSATO A RIMUOVERLI?- A livello istituzionale, è proprio il caso di dire, si sta aprendo un nuovo fronte, finora difficile da aprire a causa del fatto che per ottenere il riconoscimento dei danni l’onere della prova è spettato ai militari e non all’amministrazione. A livello scientifico, il dibattito sta diventando sempre più frizzante. Da tempo ormai, l’oncologo calabrese Pasquale Montilla, specializzato all’Università Cattolica Sacro Cuore di Roma, spinge per affrontare la questione con un approccio diverso: non più quello epidemiologico ma quello clinico tossicologico. Non di pura e semplice osservazione, ma di ricerca di riscontri di elevate concentrazioni di metalli tossici nel corpo dei militari -come l’uranio depleto- per poi controllare e ridurre i livelli di contaminazione. Se c’è “veleno” nell’organismo si trova l’antidoto per eliminarlo o comunque ridurne gli effetti. Montilla ha spiegato la sua tesi nel programma Rai Leonardo Scienza nel 2018. Da quel momento hanno cominciato a chiamarlo alcuni reduci dei Balcani affetti da differenti patologie. E dal primo caso si è arrivati fino alla trentina di pazienti trattati ad oggi (nei prossimi giorni lanuovacalabria.it racconterà le storie dei soldati assistiti da Montilla in una struttura di Catanzaro). I positivi risultati ottenuti hanno rafforzato l’intuizione dell’oncologo, calamitando l’interesse di diversi ricercatori e, proprio negli ultimi giorni, di alte cariche dei ministeri romani.

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L’APPROCCIO SBAGLIATO- Il metodo (leggi qui i dettagli del protocollo Montilla) contempla la somministrazione di farmaci complessanti che provocano l’espulsione dei metalli tossici. Questa parte del trattamento segue dei cicli infusionali programmati nel tempo. Nella pressoché totalità dei pazienti che si sono sottoposti al protocollo, il livello di concentrazione dei metalli tossici si è ridotto sensibilmente, migliorando nel complesso il quadro clinico dei militari. Montilla si chiede: «il protocollo Mandelli (l’approccio epidemiologico finora usato, ndr) è bastato per mettere in sicurezza il contingente militare italiano in missione di pace in Bosnia?». Da circa un ventennio si è agito così, quindi: «Evidentemente no», si risponde l’oncologo che poi aggiunge: «Qualcosa sta cambiando proprio in queste settimane, anche dall’alto hanno cominciato a capire». Lo Stato, con grandissimo ritardo, forse si sta accorgendo che in tutti questi anni nessuno ha pensato alla cosa più importante: alla cura dei suoi militari.   

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