di VALENTINA CELI
Un biglietto di sola andata. O così pensavo quando racchiusi tutto l’indispensabile in due valigie e partii. Non senza guardarmi indietro, ma con la convinzione che il mio futuro sarebbe stato altrove. E così è stato: per dodici anni ho vissuto lontana, per studiare all’università e formarmi professionalmente, ma soprattutto per vedere il mondo da nuove prospettive. Dodici anni e quasi altrettanti traslochi.
Non è una storia nuova per i figli di questa terra, piuttosto un copione consolidato dalle infinite repliche. Ma proprio quando ero pronta per rifare i bagagli e partire di nuovo, la pandemia ha sbarrato ogni strada percorribile. Così dopo la quarantena in Umbria, restava un’unica certezza: bisognava ritornare a casa.
Se prima tornare significava viaggiare solo due, tre volte l’anno, in occasione di ricorrenze e feste comandate, a maggio ha acquisito un significato inedito: tornare implicava restare. E ben presto il restare si è trasformato nel fare i conti con una realtà che superficialmente appare immutata, ma che svela i cambiamenti in atto ad uno sguardo più attento.
Ho ritrovato una Catanzaro stanca, svuotata, in parte per colpa del lockdown. Al mattino le strade brulicano di auto e pedoni, ma non si può fare a meno di notare gli innumerevoli cartelli che si impolverano nelle vetrine. “Affittasi”, “Svuota tutto” e “Chiuso per sempre” sembrano essere i più ricorrenti. Anche i luoghi simbolo subiscono l’avanzare del tempo. Se l’addio al Caffè Imperiale è stato scongiurato per un soffio, la definitiva partenza dei Cappuccini dalla chiesa del Monte dei morti è un’amara presa di coscienza di una città che non sembra sapere più come prendersi cura del suo patrimonio artistico e umano.
Al calar del sole il silenzio che attanaglia i vicoli evidenzia la difficoltà crescente di prosperare non solo nel centro storico, ma anche nei quartieri più popolosi. Già, i quartieri. L’incuria di Comune e cittadini ha contribuito ad invecchiare precocemente le facciate nei conglomerati urbani, dove una patina di grigiore sovrasta anche il più nuovo degli intonaci. Le periferie giacciono abbandonate, adagiate in un torpore fatto di erbacce, graffiti e malcelata indifferenza. Uno stand-by che oggi coinvolge anche lo Stadio: all’ombra del Ceravolo, con gli spalti privi di tifosi e appassionati, anche la domenica è un giorno come un altro.
Tutta la città sembra essersi rifugiata in un sonno da cui non sa più svegliarsi.
Uno dei pochi posti a non cedere al torpore è San Leonardo. Ai Giardini le facce non sono più le stesse di chi è cresciuto con me, ormai sono quelle dei nati negli anni Duemila. Ma lì l’inconfondibile suono dei motorini che sfrecciano in ogni direzione si intreccia ancora con risate, schiamazzi e col tintinnio delle bottiglie di birra, che saranno prevedibilmente abbandonate sul marciapiede dopo l’ultimo sorso.
L’unico vero vento di novità è quello dello scirocco che conduce verso sud. Se nel quartiere marinaro si respira un’altra aria, non è solo per la brezza che agita incessante le onde e i capelli dei passanti. La crescita del vicino polo universitario ha visto una crescente rivalutazione degli spazi abitativi e commerciali, che beneficiano della presenza dei tanti fuori sede. Studenti che, però, in quest’anno accademico probabilmente preferiranno le lezioni online a quelle in facoltà, col rischio che anche Lido faccia un salto indietro di un decennio.
Non è confortante analizzare i cambiamenti che Catanzaro ha subìto negli anni Duemila. In fin dei conti la città e le sue attrattive restano sconosciute sia al grande pubblico sia ai suoi abitanti. Troppo spesso il capoluogo di Regione sembra dimenticare il suo ruolo e le sue potenzialità, nonostante si possa attingere ad un passato millenario e ad un presente frammentario, seppur variopinto di opportunità. Resistono con fatica le iniziative culturali: dalla stagione teatrale del Politeama al Magna Graecia Film festival, fino agli innovativi design di Altrove e Materia. Ma che fine ha fatto la popolarissima Notte piccante, archiviata ben prima che gli assembramenti fossero da evitare? Perché non c’è più traccia di concerti nell’Area Teti? E soprattutto: perché non si punta a dare una visione identitaria della storia e del futuro di Catanzaro?
Si può e si deve ripartire. Non è retorica, ma buonsenso. Lo stop imposto dalla pandemia può essere la scossa necessaria per ripensare e ridisegnare in senso olistico la città. Tanto più che lo smart-working per molti si è trasformato in south-working, con migliaia di professionisti che, senza più la necessità di andare ogni giorno in ufficio, ritornano nei luoghi di origine, per risparmiare sulle spese d’affitto, ma anche per stare più vicino ai propri cari. La loro presenza può portare una boccata d’aria fresca all’economia locale, ma non va sottovalutato il loro bagaglio culturale e di sapere specifico, che si potrebbe mettere a frutto proprio qui, proprio ora.
Nei prossimi mesi arriveranno fondi preziosi per il rilancio della città. Ma andranno investiti e gestiti con lungimiranza, se si vuole superare una narrativa svilente, che ha già vessato troppo a lungo il capoluogo. Trasporti e infrastrutture, sanità e soprattutto educazione civica sono i temi su cui puntare.
Bisognerebbe trovare il coraggio di farsi da parte (opera quanto mai intentata dalla politica e dalle amministrazioni nostrane) e spingere i cittadini a strutturare un percorso per Catanzaro che sia adatto a crescere insieme a loro. Dare davvero spazio a giovani e giovanissimi, così che non debbano necessariamente immaginare il proprio futuro al di là dei confini regionali.
Chissà, magari così il verbo restare diventerà sinonimo di valorizzare.
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