Quando una donna viene aggredita, molestata o uccisa, una parte dell’opinione pubblica, spesso amplificata dai media, reagisce non con empatia, ma con sospetto. Cosa indossava? Perché era lì a quell’ora? Perché non se n’è andata prima? Come se la violenza non fosse una responsabilità dell’aggressore, ma una conseguenza (quasi prevedibile) delle scelte della vittima. Questo fenomeno ha un nome preciso: victim blaming, ovvero la colpevolizzazione della vittima. È un meccanismo perverso, radicato in stereotipi culturali e sessisti, che sposta l’attenzione dal carnefice alla persona ferita, mettendo in discussione la sua credibilità, la sua moralità e persino il suo diritto a ricevere giustizia. Spesso accade in modo subdolo, quasi involontario, come nei titoli di giornale che parlano di “lite finita in tragedia” anziché di femminicidio, o che descrivono l’assassino come un “bravo ragazzo che ha perso la testa per amore”. Così, il dramma viene assorbito e trasformato in una narrazione tossica, in cui l'amore giustifica la violenza e la passione diventa un alibi. La romanticizzazione degli abusi si insinua anche nei racconti mediatici e nelle rappresentazioni cinematografiche e televisive. Le relazioni tossiche vengono dipinte come intense, travolgenti, “vere”, dove la gelosia è una prova d'amore e il controllo una forma di protezione. L’uomo violento diventa l’antieroe tormentato, la donna che resta accanto a lui una figura tragica ma innamorata, vittima e al tempo stesso complice della sua stessa rovina. Questo tipo di rappresentazione è pericoloso. Non solo distorce la realtà, ma contribuisce a normalizzare comportamenti abusanti, soprattutto tra i più giovani, che crescono pensando che l’amore debba far soffrire, che la gelosia sia inevitabile e che la violenza, in fondo, sia solo un modo estremo di amare. È fondamentale ribaltare questo paradigma. L’amore non giustifica mai il possesso, il dolore, la paura. E nessuna donna dovrebbe sentirsi colpevole per essere stata aggredita, nessuna bambina dovrebbe crescere con l’idea che se un uomo la tratta male è perché la ama. Le parole hanno un peso. Chi scrive, parla o racconta ha una responsabilità enorme. Continuare a usare un linguaggio che colpevolizza le vittime o idealizza chi fa del male significa partecipare, anche senza volerlo, a una cultura che giustifica la violenza. La narrazione può ferire, ma può anche guarire. Raccontare la verità, usare le parole giuste, dare voce alle vittime senza giudicarle: è da qui che dobbiamo partire per costruire una società capace non solo di condannare la violenza, ma di riconoscerla e prevenirla. Anche e soprattutto nelle storie che scegliamo di raccontare.
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