Zagrebelsky e lo “scontro impari” tra politica e magistratura: una riflessione da avvocato

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  03 novembre 2025 15:40

di M. CLAUDIA CONIDI RIDOLA

Nell’intervento del 2 novembre 2025 a In Altre Parole su La7, il professor Gustavo Zagrebelsky ha affermato che “viviamo uno scontro impari tra politici e magistrati”. Secondo l’ex presidente della Corte costituzionale, il confronto fra potere politico e potere giudiziario non si svolge più su un piano di equilibrio: la magistratura oggi si trova in posizione di debolezza, priva degli strumenti di comunicazione e della forza di cui dispone la politica. I magistrati, ha osservato Zagrebelsky, non godono della stessa libertà di critica che la politica esercita nei loro confronti, e questo squilibrio rischia di minare la credibilità della giustizia. Questa affermazione merita, a mio avviso, una riflessione giuridica e civile. Come avvocato, abituato a misurarmi quotidianamente con il funzionamento della giustizia, sento che il tema tocca non solo la magistratura o la politica, ma la qualità stessa dello Stato di diritto. Lo scontro tra poteri, infatti, non è una novità: attraversa l’intera storia repubblicana. Negli anni di Mani Pulite, magistrati come Antonio Di Pietro, Gherardo Colombo o Piercamillo Davigo portarono alla luce un sistema di corruzione diffuso, provocando una frattura profonda con la classe politica di allora. Alcuni, come Di Pietro, scelsero poi la via della politica, aprendo un dibattito delicato sul confine tra giurisdizione e militanza; altri, come Caselli o Borrelli, rimasero nella magistratura ma non tacquero di fronte agli attacchi del potere politico. Anche oggi, figure come Carlo Nordio, ex magistrato e ora ministro della Giustizia, testimoniano quanto sia sottile la linea che separa chi applica la legge da chi la scrive. Lo “scontro impari” di cui parla Zagrebelsky è dunque anche il frutto di un’asimmetria di strumenti: la politica dispone di consenso, visibilità, capacità di incidere sul piano normativo e mediatico; la magistratura, invece, è vincolata al riserbo e alla terzietà, e non può rispondere con le stesse armi senza compromettere la propria funzione. Quando la critica politica si trasforma in delegittimazione sistematica, si colpisce un pilastro della democrazia: la fiducia nella giustizia. Da avvocato, vedo con duplice sguardo questo dibattito. Comprendo la necessità di una riforma della giustizia che renda più efficienti i tempi e più chiare le responsabilità, ma temo che la discussione pubblica scivoli troppo spesso su un terreno ideologico, dove il magistrato diventa un avversario e il giudice un ostacolo. Eppure, la fiducia dei cittadini è il vero fondamento della giustizia, e non può sopravvivere se i poteri dello Stato smettono di rispettarsi nei propri limiti costituzionali. Lo scontro può e deve essere costruttivo: può spingere la politica a riformare la giustizia non per controllarla ma per migliorarla, e può indurre la magistratura a interrogarsi sui propri limiti, sulle correnti, sulla comunicazione, per recuperare autorevolezza e trasparenza. In una democrazia matura, la tensione fra poteri non è un segno di crisi, ma un segno di vitalità: è il modo in cui lo Stato bilancia se stesso. Ciò che dobbiamo evitare è che il confronto si trasformi in una guerra di delegittimazione, dove ciascun potere mira a prevalere sull’altro. Le parole di Zagrebelsky ci ricordano che il diritto non è solo norma ma anche equilibrio, misura, fiducia reciproca. La politica non può pretendere una giustizia compiacente; la magistratura non deve sentirsi investita di una missione morale o salvifica. Solo il rispetto dei ruoli e dei limiti reciproci può restituire ai cittadini la certezza che la legge vale per tutti, e che nessuno – né politico, né giudice – è al di sopra di essa. E forse, in questo quadro, vale la pena domandarsi anche quale libertà di parola abbia oggi un avvocato. Se un avvocato prendesse pubblicamente posizione contro un politico parlando di giustizia, si troverebbe di fronte a un confine deontologico sottile: il dovere di correttezza e misura nel linguaggio, la necessità di non ledere l’immagine della magistratura o delle istituzioni, la prudenza nel non trasformare la propria opinione in militanza. Ma proprio questi limiti, che hanno lo scopo di preservare la dignità della professione, interrogano la nostra idea di democrazia: può un sistema dirsi pienamente libero se chi opera nel diritto deve misurare le proprie parole più di chi detiene il potere politico? È un interrogativo che richiama ancora una volta lo “scontro impari” di cui parla Zagrebelsky, e che forse andrebbe esteso oltre la magistratura, a tutti coloro che del diritto fanno la propria voce civile. Perché se la libertà di parola si riduce a privilegio dei più forti, allora il diritto smette di essere garanzia e torna ad essere, semplicemente, forza. E qui si misura la vera responsabilità del giurista: ricordare, anche quando tace o sceglie le parole con cautela, che il diritto non serve il potere ma lo limita, e che la misura della nostra libertà collettiva si vede da quanto coraggio abbiamo nel difenderla, anche con la sola forza delle parole.

*Avvocato


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