100 anni fa l’assassinio di Giacomo Matteotti

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  09 giugno 2024 16:33

di MARIA GRAZIA LEO

Lo attesero in cinque, tutti squadristi venuti da Milano, professionisti della violenza assoldati dai più stretti collaboratori di Benito Mussolini...” Ci piace doverosamente e per senso etico partire da qui, sì proprio da qui dall’inizio del monologo- destinato alla celebrazione del 25 aprile- che lo scrittore Antonio Scurati avrebbe dovuto leggere in Rai e che invece -incredibilmente- dall’attuale dirigenza del servizio pubblico di informazione è stato oscurato.  Monologo che i cittadini italiani potranno leggere o ascoltare comunque attraverso le reti private, i siti on line di informazione, i social, la cosiddetta comunicazione mobile e veloce che oggi non cestina e silenzia nulla di quello che accade nel mondo in tutti gli ambiti, anzi a volte è ultra prolifica di notizie anche futili. Ma tant’è, sempre meglio eccedere nel libero pensiero e nella giusta modalità di espressione dello stesso che vederlo spezzato o soffocato, da velati cultori di un pensiero unico o di verità preconfezionate o magari prive di fondamento storico o scientifico.

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Quella persona attesa, dagli squadristi fascisti guidati da Amerigo Dumini, quel 10 giugno del 1924 si chiamava Giacomo Matteotti, parlamentare e Segretario del Partito socialista unitario (PSU). L’Italia di 100 anni fa si presentava sul piano giuridico, istituzionale, sociale molto diversa da quella odierna. Vigeva uno Stato monarchico costituzionale e liberale, con una Costituzione flessibile – Lo Statuto Albertino del 1848- concessa dal Re dell’epoca, Carlo Aberto di Savoia. Ma a partire dal 1919 in poi quella forma di governo iniziava a perdere la sua efficacia, gli esecutivi non duravano a lungo scontentando il popolo che chiedeva riforme vere e aiuti economici sostanziali dopo la fine della prima guerra mondiale. Si assisteva ad una frammentazione elettorale in tutti i partiti di riferimento dai socialisti, ai popolari, ai liberali…che avrebbe aperto la strada ad una reazione sul territorio di un movimento politico per il momento minoritario ma che in pochi anni avrebbe preso il sopravvento- il fascismo-. Il 28 ottobre del 1922 i fascisti marciarono su Roma -guidati da Benito Mussolini- e nonostante questo evento estremo e anomalo il Re Vittorio Emanuele III, non prese posizione, restò praticamente inerme, non reagì e non firmò il decreto di stato d’assedio che il Presidente del Consiglio di allora Luigi Facta gli sottopose, in modo tale da autorizzare l’intervento dell’esercito per contrastare e fermare gli occupanti la capitale. Non accadde nulla di tutto ciò, Roma e l’Italia vennero consegnate dal Re, dietro la minaccia dell’uso della forza e con lo spauracchio di una guerra civile, nelle mani di Benito Mussolini che da lì a pochi giorni, da quel 28 ottobre, ottenne l’incarico di formare un nuovo Governo. In quel 1922, tutto cambia e tutto si trasforma. Giacomo Matteotti a quell’epoca era già un giovane deputato, eletto alle elezioni del 1919 e del 1921, nelle fila del Partito socialista dal quale verrà espulso a seguito della divisione tra massimalisti e riformisti. Si schierò con i riformisti e venne eletto segretario di un nuovo partito il Psu, Partito socialista unitario. Come vedremo tra poco, addentrandoci nella narrazione storica/politica, il 1922 sarà un anno di svolta sia nella politica nazionale che comporterà sofferenze, soprusi, violenze, costrizioni e restrizioni nelle libertà politiche e nei diritti civili e sociali del popolo italiano, segnandone per lungo tempo la loro vita e sia nella politica più strettamente partitica che coinvolgerà in prima persona Giacomo Matteotti portandolo ad essere e a diventare di lì a pochi mesi un martire della Libertà e della Democrazia o più semplicemente e chiaramente un martire dell’Antifascismo.

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Ma andiamo con ordine; già prima della marcia su Roma, precisamente nel 1921, l’Italia diventa protagonista passiva delle gesta e delle azioni di violenza e terrore a firma fascista, dagli assalti ai comuni, alle sedi di partito, agli scontri di piazza con lanci di bombe comprese, agli attacchi alle sedi delle organizzazioni operarie, alle tipografie o ai giornali di sinistra, ai circoli culturali. Il paese è in subbuglio ed il governo è debole nel fronteggiare tutto questo. La frammentazione politica in parlamento è l’aggravante ultima che fa traboccare il vaso e apre le porte all’avanzata di Mussolini con il beneplacito di un Re- Vittorio Emanuele III- consenziente perché debole, privo di coraggio “qualità” che gli italiani non dimenticheranno tanto facilmente e che anzi non perdoneranno mai al sovrano e alla Monarchia come istituzione. Così diventato Presidente del consiglio, Mussolini decide di cambiare legge elettorale, facendo approvare- nel 1923- dal Parlamento la legge Acerbo (chiamatasi così perché prendeva il nome di Giacomo Acerbo il deputato che ne redasse il testo). In questo modo si cambiò il sistema elettorale in senso maggioritario, i seggi quindi venivano assegnati nei 2/3 alla lista che avrebbe ottenuto la maggioranza relativa dei voti- almeno un voto in più del 25% di voti del totale- sulla base di collegio unico nazionale, mentre il restante 1/3 dei seggi sarebbe stato assegnato, alle minoranze dei partiti usciti perdenti dall’esito delle elezioni, con il sistema proporzionale. L’obiettivo era chiaro, rafforzare e far prevalere con maggiore facilità il partito di maggioranza relativa che nei fatti e soprattutto per come poi sarebbero stati “confezionati” e “organizzati” gli atti e gli accadimenti elettorali, sarebbe risultato il Partito nazionale fascista (Pnf). Si giunse-quindi- alle elezioni del 6 aprile del 1924, le ultime che si svolsero con una platea plurale di partiti, prima che la dittatura fascista si permeasse e radicalizzasse definitivamente nella cornice istituzionale della Nazione. Le politiche di quell’anno rappresentarono lo spartiacque, la cartina di tornasole che influenzò in modo decisivo la sorte politica ma soprattutto la stessa incolumità fisica di Matteotti. Il responso era già scontato. Con Mussolini al Governo, le sue milizie nelle strade, armate di minacce, intimidazioni e manganelli ed una legge elettorale disegnata su sua misura e somiglianza o meglio su sua volontà, la vittoria elettorale del Pnf trovò soltanto il suo ultimo sigillo di legittimità dalle schede scrutinate, con il 65% circa dei voti ottenuti e l’assegnazione di 374 seggi su 535 della composizione totale della Camera dei deputati. Alle minoranze più numerose e consolidate -dai popolari-ai comunisti-ai socialisti unitari ed ai socialisti uniti- ai liberali- non restò che un semplice diritto di tribuna, visto che i seggi complessivi rimasti da assegnare furono nel loro complesso 161, praticamente una esigua minoranza. Al Presidente del consiglio le elezioni del 1924, gli consegnarono una maggioranza formalmente piena e assoluta, con ampia facoltà di azione anche se sul piano sostanziale quel risultato dalle urne non uscì, non arrivò come il frutto di una partecipazione libera, democratica, con la garanzia della segretezza del voto dei cittadini. Ci furono casi che videro candidati socialisti aggrediti e feriti, uno di loro Antonio Piccinini venne ucciso, i comizi impediti, così come bloccate le affissioni dei manifesti elettorali, bruciati i giornali liberi schierati con i partiti contrari al fascismo. Molte furono le segnalazioni di brogli all’interno dei seggi, alcune volte rese più evidenti e trasparenti come la contestazione e relativa cancellazione del voto, quando non fosse stato a favore di una “certa lista”, a volte con la presenza di rappresentanti del partito di Mussolini all’interno delle cabine elettorali, altre volte con l’estorsione violenta e manifesta all’esterno dei seggi. Ed è proprio su come si svolsero le elezioni che entra in gioco l’On. Matteotti che lascerà alla storia e al nostro senso civico il suo testamento politico più alto e nobile, esempio di puro coraggio e di un vero e autentico sentimento verso gli ideali di libertà, eguaglianza, democrazia, giustizia sociale, resi al servizio dello Stato e del popolo italiano. Il 30 maggio del 1924- in occasione della richiesta -da parte della Giunta delle elezioni- della convalida degli eletti in Parlamento, il giovane deputato socialista interviene in aula pronunciando un notevole discorso, drastico ed efficace per l’intensità e l’esposizione dei contenuti in oggetto, con il quale contesterà dettaglio per dettaglio la legittimità dei risultati elettorali viziati da violenze, minacce, abusi senza il rispetto delle regole in vigore. È un intervento a dir poco rivoluzionario, il simbolo di una ribellione istituzionale e politica che segnerà una netta linea di demarcazione nell’evoluzione civile e politica da qui agli anni a venire per l’Italia. Però prima di addentrarci nello specifico delle parole proferite da Giacomo Matteotti, proviamo a conoscere meglio chi era il deputato del Regno dei Savoia, più temuto da Mussolini e più inviso al fascismo. Nato a Fratta Polesine -provincia di Rovigo- nel 1885 da una famiglia della buona borghesia, che oltre agli impegni lavorativi legati al commercio era dedita alla politica, a cominciare dal padre Girolamo eletto consigliere comunale del paese nelle file dei socialisti, Giacomo Matteotti dopo aver frequentato il Liceo Ginnasio proseguì gli studi umanistici, conseguendo la Laurea in Giurisprudenza a Bologna nel 1907 e specializzandosi nel penale. Ma la passione per la politica che aumentava di giorno in giorno lo spinse ad allentare a malincuore la sua carriera giuridica. La tecnica organizzativa, la scrupolosità, la metodicità che Matteotti aveva adottato e affinato negli studi del diritto, gli servirono molto nello svolgimento dell’attività legislativa. Iniziò -quindi-a farsi conoscere e stimare nei movimenti di ispirazione socialista. Di fronte allo scoppio delle prima guerra mondiale, prese una posizione contraria all’uso delle armi dichiarandosi un fautore della neutralità dello Stato italiano rispetto al conflitto in atto. Per queste posizioni venne inviato al confino in Sicilia e dovette abbandonare Fratta Polesine per 3 anni. Sposerà -nel 1916- civilmente la poetessa romana Velia Titta, dalla quale avrà tre figli. Il loro era un legame che andava oltre il sentimento del cuore, c’era una forte intesa spirituale e culturale, che traspare dal loro fitto dialogo epistolare dal quale emergerà il Matteotti privato…amante della vita, appassionato di musica, cinema, arte; era un cultore dei viaggi attraverso i quali arricchiva le sue conoscenze e ricerche e nutriva la sua anima. Una persona che pur a 100 anni di distanza e con le differenze storiche-ambientali e dei costumi sociali indossava il vestito della modernità, praticamente sarebbe stato uno di noi, uno come noi oggi.

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Era un socialista riformista, un intellettuale, visionario nell’indole con in testa e nel cuore sempre la difesa del proletariato, dei contadini, dei più disagiati. Il proletariato doveva essere il motore pulsante dello sviluppo della società a garanzia della libertà individuale e collettiva. Il suo concetto di socialismo “dal volto umano” o se vogliamo usare un termine a noi più consono “socialdemocratico” era proiettato su basi etico-ideali finalizzate ad ampliare la cittadinanza politica, a rafforzare la dignità della persona, a difendere la democrazia ma sempre spinte e sorrette da un effettivo e concreto pragmatismo nell’agire, che permettesse loro di realizzarsi. Non abbandonò mai l’idea della lotta di classe ma rimase fermamente contrario allo scontro di classe. L’orizzonte del suo agire politico era ancorato al rispetto delle regole condivise, attraverso le quali edificare una società migliore dove regna l’armonia tra tutte le classi sociali senza che ve ne fosse una sola a primeggiare. Il suo pensiero quindi non è soltanto rivolto al proletariato, ai contadini, ma si estende ai ceti colti e alla media borghesia. 

L’ attività politica la intraprende inizialmente nella sua Fratta Polesine, poi diventa nel 1920 Segretario della Camera del lavoro di Ferrara, che insieme ad altre cittadine dell’Emila Romagna diventeranno a breve se non i primi, non certo gli ultimi scenari delle continue e intense violenze fasciste. Violenze che Matteotti denuncerà assiduamente e tenacemente, nonostante fosse stato minacciato ed aggredito più volte dalle bande dello squadrismo nero, ed espulso dalla sua città natale. Intanto nel 1919 e nel 1921 viene eletto alla Camera dei deputati e da quelli scranni solenni ancora espressione della sovranità popolare libera e democratica inizierà a paventare e a diffondere l’allarme di un autoritarismo in itinere e della pericolosità del movimento fascista che ormai si stava allargando a macchia d’olio. Ma non tutti i suoi colleghi e compagni del partito socialista presero sul serio e con attenzione i suoi timori e i suoi avvertimenti. È lo stesso Matteotti che rendendosi conto delle timide reazioni ricevute scandisce testualmente<< C’è chi, sotto la tempesta, trova modo di rinfacciare al vicino la tempesta che cade e perde tempo a litigare invece che a difendersi. Così sembrano fare oggi alcuni compagni, sotto le violenze delle bande armate>> Insomma per alcuni socialisti bastava solo addomesticare il fascismo, ammorbidendolo sul piano legale e formale, per poi conviverci. Al giovane deputato socialista questo non bastava, non era sufficiente perché occorreva “gente di volontà per una resistenza senza limite” contro la dittatura fascista, essendo ben conscio che sarebbe durato a lungo quel regime e che di sua spontanea volontà non avrebbe mai ridato e garantito legalità e libertà all’intera popolazione italiana. È il 30 settembre del 1922 quando l’Onorevole Matteotti lancerà questo ultimo appello all’unità- per fronteggiare l’avvento del fascismo- alle varie anime dei socialisti italiani che erano spaccati al loro interno e che da lì a poco tempo avrebbero concorso alla scissione tra massimalisti e riformisti. Ma il suo appello cadde nel vuoto, non venne ascoltato, non venne creduto, non venne capito. Anche il partito comunista d’Italia fece orecchio da mercante, rimase restio e diffidente verso questo parlamentare, intellettuale e giurista; basta semplicemente accennare che il fondatore del PCd’I (Partito comunista d’Italia) Antonio Gramsci lo definì “un pellegrino del nulla” e Palmiro Togliatti lo chiamò “socialtraditore”, poiché lo accomunava a Mussolini e Don Sturzo tra i nemici del comunismo. Per dovere di cronaca -per maggiore chiarezza dal punto di vista storico- Gramsci considerava Matteotti  sì un pioniere protagonista della rinascita degli operai e dei contadini, al quale affidarono la guida per riscattare il loro destino, per renderli autonomi sul piano economico con pari dignità e libertà, però questo pioniere- a suo giudizio- non concorreva a realizzare il fine a cui probabilmente aspiravano i comunisti, cioè una rivoluzione proletaria di stampo bolscevico, che partiva dal basso, fondata sui soviet contrapposta all’idea di Matteotti propenso per una rivoluzione che -usando il linguaggio contemporaneo- chiameremo liberal-riformista-legalitaria, all’interno sempre di una cornice istituzionale Egli considerava “l’abuso della libertà personale un limite invalicabile”.  La solitudine a cui Giacomo Matteotti andrà incontro aumenterà sempre di più, soprattutto se si pensi che anche l’ala politica occupata dagli intellettuali liberali da Gobetti a Croce, non era stata certo tenera con lui. Andando per sintesi Matteotti ad esempio era considerato un uomo solo, altero, disdegnoso, non era il socialista buono da presentare agli occhi dei cittadini a confronto dei compagni opportunisti; era una persona che è andata incontro al suo destino, in modo consapevole. Lo scontro memorabile in aula nel 1920 con il liberale Benedetto Croce -ministro dell’Istruzione- sul tema della centralità del sistema scolastico pubblico, da intendersi per Matteotti un giusto volano per una società nuova, ne è un esempio lampante dell’acredine riversata su di lui. Furono purtroppo- con il senno di poi- comportamenti e valutazioni sbagliati, quelli portati avanti dai comunisti e dai liberali, che pagheranno successivamente anche loro con la vita rispettivamente dei due esponenti principali Gramsci e Gobetti, che Mussolini volle ergere a trofeo della sua imbattibilità e grandezza. Ci rendiamo conto mentre scriviamo che è un racconto triste e amaro quello che traspare -da quanto brevemente elencato- sulla poca considerazione, stima che i leader dell’opposizione di quegli anni nutrirono e riposero nella figura dell’on. Matteotti, un incompreso per molti -in Patria- ed un visionario capito e apprezzato da molti all’estero e da pochi in Italia come gli amici socialisti Filippo Turati, Giovanni Amendola, Claudio Treves e Don Sturzo fondatore del Partito popolare. All’estero, basta ricordare che a Londra gli pubblicarono la traduzione in inglese di un suo libro “Un anno di dominio fascista”. Malgrado la solitudine politica e personale lo accompagnasse ormai giorno dopo giorno nella sua attività politica e sociale l’incompreso, il sottovalutato, l’irriso, l’avversato da molti continuò a camminare sulle sue gambe, sorretto esclusivamente dalla forza e dalla passione dei suoi ideali e dei valori in cui credeva. Affronterà e sfiderà più volte con dignità e coraggio, a testa alta -nell’aula della Camera dei deputati-il duce Benito Mussolini e i colleghi del Pnf e lo farà in modo particolare il 30 maggio del 1924, pronunciando un celebre discorso. “…Contestiamo in questo luogo ed in tronco la validità delle elezioni della maggioranza…secondo noi non valida in tutte le circoscrizioni” Con meticolosità certosina e dovizia di particolari l’on. Matteotti argomenterà le sue tesi e dimostrerà le sue prove, accusando il Partito nazionale fascista di aver vinto solamente perché ha estorto con minacce, violenze, abusi la volontà dei singoli cittadini/elettori. Su quanto sta dichiarando viene più volte interrotto, contestato, disturbato con rumori, schiamazzi, attacchi invettivi ma non demorde, non si ferma anzi denuncia l’esistenza di una milizia armata, composta da cittadini di un solo partito a sostegno di un determinato Governo, pronta ad ottenere il risultato favorevole con la forza, anche se quel consenso dovesse realmente mancare. Dal forte impatto, addirittura disarmanti risultano alcuni passaggi finali del suo intervento, che per rendere omaggio alla sua memoria e statura morale preferiamo riportare letteralmente << Voi dichiarate ogni giorno di volere ristabilire l’autorità dello Stato e della legge. Fatelo, se siete ancora in tempo; altrimenti voi sì veramente, rovinate quella che è l’intima essenza, la ragione morale della Nazione. Non continuate più a tenere la Nazione divisa tra padroni e sudditi, perché questo sistema certamente provoca la licenza e la rivolta…voi volete ricacciarci indietro. Noi difendiamo la libera sovranità del popolo italiano e crediamo di rivendicarne la dignità, domandando il rinvio delle elezioni inficiate dalla violenza, alla Giunta delle elezioni>> Quindi difesa della libertà, difesa della dignità, difesa della civiltà, difesa della sovranità popolare, dello Stato liberale queste le corde tese morali, giuridiche, istituzionali, politiche caratterizzanti l’intervento del Segretario del Partito socialista unitario. In alcune frasi finali del suo discorso ci permettiamo sommessamente di interpretare ed intravedere quasi il presagio di quello che a distanza di venti anni sarebbe avvenuto nella bellissima primavera del 1945, dal profumo di libertà…che prese il nome di Resistenza ma ovviamente non ci dilunghiamo oltre per rispetto dei lettori su questo altro importante e straordinario momento della storia italiana. Ritornando a quel 30 maggio del 1924 si narrò che Matteotti dopo aver finito di parlare si rivolse ai suoi colleghi socialisti che lo circondarono per congratularsi dicendo loro “io il mio discorso l’ho fatto, ora potete preparare il mio elogio funebre”. Parole più profetiche di quelle non poterono esserci…Il 10 giugno del 1924 Giacomo Matteotti non aveva ancora compiuto 40 anni, uscì dalla sua abitazione di via Pisanelli in Roma per non farvi più ritorno…perché “lo attesero in cinque, tutti squadristi venuti da Milano, professionisti della violenza assoldati dai più stretti collaboratori di Benito Mussolini…” Lo assalirono sul Lungotevere, lo prelevarono o meglio lo sequestrarono nonostante si dimenasse, gridasse aiuto e resistesse con tutte le sue forze di resistente nell’animo e nel fisico, pur di non entrare nella loro auto. Ci riuscirono lo stesso solo dopo averlo stordito con un pugno… ma anche nella Lancia Kappa Matteotti non si calma, non si arrende agli squadristi, reagisce più che può e riesce addirittura a buttare dal finestrino dell’auto il suo tesserino di parlamentare, per lasciare una traccia di sé, tant’è che alla fine uno degli squadristi per fermarlo lo accoltella più volte, lasciandolo morire agonizzante. Probabilmente non erano quelli i piani iniziali degli assalitori della Ceka (polizia politica del partito fascista). Ma questo non lo si saprà mai. Il giovane deputato socialista non venne ritrovato subito ma solo il 16 agosto dello stesso anno, in una zona boscosa “Quartarella” del Comune di Riano Flaminio vicino Roma. Dal 10 giugno, al trascorrere dei giorni fino al suo ritrovamento è chiaro a tutti gli italiani -ormai-che il sequestro Matteotti si stava trasformando da un sequestro ad un assassinio a tutti gli effetti. Sul piano politico quel tragico evento gettò finalmente le basi di un sussulto unitario, di forte indignazione e proteste da parte di tutte le opposizioni parlamentari. Il 27 giugno il Partito popolare italiano, i socialisti italiani ed unitari, i comunisti d’Italia, l’Opposizione costituente, il Partito repubblicano, il Partito Sardo d’azione, il Partito democratico sociale italiano decidono insieme di commemorare ufficialmente e solennemente Matteotti non nell’aula di Montecitorio ma in una sala della Camera dei deputati  definita poi “ Sala Aventino”; è lo strappo istituzionale più dirompente che si ricordi di quel periodo, con il quale atto i deputati dell’opposizione dichiareranno di non tornare più in aula di non voler più partecipare ai lavori parlamentari con i colleghi del Pnf. Resteranno fuori per 5 mesi tutti uniti. Scopo degli aventiniani era quello di fare pressione per avere verità, giustizia portando i responsabili a processo e fino a quel 16 agosto di trovare pure il corpo di Matteotti. Il governo Mussolini -insomma- veniva chiamato a rispondere senza se e senza ma, non poteva, non doveva fare lo scaricabarile o solo dispiacersi per quanto accaduto, per poi fare ricadere le colpe sulla manovalanza della polizia politica prima, poi sui sottoposti in seconda del Duce, quali ad esempio Cesare Rossi – vicesegretario politico del partito nazionale fascista- il Segretario amministrativo del Pnf Giovanni Marinelli o Emilio De Bono Capo della Polizia, fatti dimettere o consegnare alla giustizia da Mussolini. Tutto ciò non bastava per rasserenare gli animi di un popolo che era ben consapevole -anche se mancava la prova giudiziaria- che il vero mandante dell’omicidio Matteotti, si trovasse nello scranno più alto del governo, sito a P.zza Venezia. Cosicché finalmente il 3 gennaio del 1925 Benito Mussolini dopo alcune peripezie si assunse la responsabilità del fatto in essere e di tutto quello che è stato dei delitti politici accaduti. “Dichiaro qui, al cospetto di questa Assemblea e al cospetto di tutto il popolo italiano, che io assumo, io solo, la responsabilità politica, morale, storica di tutto quanto è avvenuto”. Quindi tutto dipese da lui, l’uso dell’olio di ricino e dei manganelli, l’aver istituito il fascismo -del quale ne era a capo- come un’associazione a delinquere, l’aver isolato, aggredito o ucciso i suoi oppositori politici, ritenuti da lui nemici, più che avversari. La colpa era esclusivamente sua, quindi. Ma in realtà quelle dichiarazioni non erano altro che pura propaganda di mussoliniana memoria, finalizzata a magnificare la sua grandezza, la sua potenza e a ratificare chi comandava in quel momento il Paese. Perché?... semplicemente perché dopo quelle attestazioni, quelle ammissioni di “responsabilità” un vero statista si sarebbe dovuto dimettere. Ma nulla accadde, anzi tutt’altro…ci si preparava ad affrontare definitivamente e con più veemenza la brusca realtà: iniziavano gli anni bui del “ventennio” fascista. Cambia totalmente la prospettiva anche formale dello Stato, che da liberale diventa autoritario/dittatoriale, si assisterà alla fine delle elezioni libere e democratiche, alla messa al bando dei sindacati, dei partiti di opposizione, della stampa libera e plurale, all’invio al confino dei politici e degli intellettuali indesiderati che davano fastidio al governo e così via dicendo. Il delitto Matteotti -quindi-segnerà un solco profondo nella storia del paese che da quel 1924 si spaccherà e vivrà profonde lacerazioni, divisioni miste a sofferenze economiche, sociali, privazioni di libertà e diritti imposti dal regime. E se il 10 giugno di quell’anno iniziò la dittatura, potremmo dire che un altro 10 giugno ma di 16 anni dopo- il 1940- con l’entrata in guerra dell’Italia a fianco di Hitler- ne avviò o determinò l’inizio della sua fine. Saranno una fatalità, una coincidenza o semplicemente dei segnali? Chissà…Certamente sono gocce di memoria, da ricordare e su cui riflettere. Possiamo quindi affermare che se la violenza politica del “ventennio” è stata il pilastro fondante dello squadrismo che ha spianato la strada alla dittatura -spietata- del fascismo a partire dal tributo di sangue versato dal Segretario del Partito socialista unitario, allora la Resistenza dei partigiani -nella loro pluralità di colori e bandiere di appartenenza politica- e la lotta di Liberazione portata a compimento con l’aiuto degli Alleati anglo/americani, attraverso le necessarie armi militari e con le giuste azioni civili, è stata la base portante del riscatto e della vittoria di quei valori e di quegli ideali di libertà, legalità e civiltà sui quali si è immolato cento anni fa con orgoglio, dignità e coraggio quell’eroe laico della democrazia e antesignano del riformismo, al quale dobbiamo essere tutti grati: Giacomo Matteotti.

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