Bruno Gemelli: "Cose di calcio, vestivamo alla marinara"

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  28 ottobre 2024 08:48

di BRUNO GEMELLI

 Oggi le squadre di calcio usano vestire magliette dai colori improbabili, con disegni metafisici e tessuti sperimentali. Una volta non era così, la tradizione faceva premio su ogni altra considerazione. Oggi, per distinguere una squadra, specie in televisione, bisogna affidarsi alla didascalia.

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Una volta era più semplice. Ogni società aveva una sorta di marchio di fabbrica. Per cui, tanto per fare degli esempi, le righe orizzontali li aveva solo la Pro Patria, le spalline bianche su maglia azzurra le aveva solo la Spal, la squadra di Ferrara che usava l’acronimo “Società polisportiva ars et labor”.

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Ma c’erano altre discriminanti che facevano distinguere le squadre. Ancora un esempio: sia il Padova che il (anzi, la) Bari indossavano la maglia bianca, ma quest’ultima usava i calzettoni neri. Anche i numeri dietro la maglietta erano discriminanti: la Sampdoria li usava grandi, gli altri per lo più piccoli.

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Ricordo che quando il Catanzaro calcio, allora in serie A, andò a giocare a San Siro, Gianni Brera, nella sua cronaca, parlò solo della divisa giallorossa dei catanzaresi che richiamava le Guardie Svizzere di cui disquisì a lungo largheggiando in cultura.

Poi ci sono giornalisti come Stefano Marelli, un misto di Gianni Brera e Beppe Viola, che è stato valorizzato in Calabria attraverso il concorso “Parole al Vento” edito dalla Provincia di Catanzaro. Marelli, nel 2013, scrisse, per i tipi di Rubbettino, due racconti: “Altre stelle uruguayane” e “Pezzi da 90”.

Parlò di Alcides Ghiggia che è stato l’ala destra uruguagia (giocò anche nella Roma e nel Milan) che fece piangere i brasiliani portando la “Celeste” (così veniva chiamata la nazionale dell’Uruguay) nella vittoria mondiale contro i carioca. Il 16 luglio1950, nella gara decisiva, al Maracanà di Rio de Janeiro contro lo strafavorito Brasile supportato da 200.000 spettatori, fu lui a propiziare il pareggio di Schiaffino con un preciso assist, e a realizzare poi (su cross dello stesso Schiaffino), con un superbo diagonale, il goal della vittoria che valse agli uruguayani il secondo titolo mondiale.

Ghiggia disse in quella occasione: «Solo tre persone sono riuscite a zittire il Maracanà: Frank Sinatra, Papa Giovanni PaoloII e io». Poi ci sono tanti frammenti gloriosi e dolorosi delle nazionali che hanno più caratterizzato il torneo mondiale che un tempo si chiamava Coppa Rimet. Oltre al Brasile e all’Uruguay, ci sono le storie dei campioni, da Pelè in giù, delle furie rosse spagnole, degli argentini, dei tedeschi, degli ingesi. Dell’Italia che ha riso a Madrid, e ha pianto a Santiago del Cile. E poi la chicca, la dedica iniziale che dà il senso a tutte le storie narrate: «Il calcio raccontato è quello che ti fa credere, anche se sei nato nel ’70, di aver visto giocare Alfredo Di Stefano. Proprio alla “Saeta Rubia”, il più grande di tutti, è dedicato questo libro. Ci fosse stato un dio, non avrebbe mai permesso che Di Stefano non disputasse nemmeno un minuto ai Mondiali».

A beneficio dei più giovani ricordo che Alfredo Di Stefano, argentino di Buenos Aires, giocatore ineguagliabile delle merengue, ossia del Real Madrid dell’epoca d’oro, non gioco mai nella nazionale Argentina ai Mondiali.

Un mistero!

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