
di MARIA CLAUDIA CONIDI RIDOLA*
Il dibattito sulla giustizia italiana si è riacceso dopo le dichiarazioni del Procuratore Nicola Gratteri, che ha espresso riserve sulle riforme Cartabia e Nordio, denunciando come esse abbiano prodotto effetti diversi da quelli auspicati. Gratteri ha richiamato l’attenzione su problemi strutturali mai risolti, come il sovraffollamento carcerario, e su una serie di interventi normativi che, sotto l’apparenza del garantismo, hanno finito per indebolire l’azione giudiziaria e rendere più difficile la collaborazione degli imputati. Le sue osservazioni hanno toccato anche l’eccesso di garanzie procedurali, come la previsione di informare l’indagato di atti d’indagine ancora in corso, misura che a suo giudizio rischia di compromettere l’efficacia delle inchieste e di favorire chi dispone di risorse economiche e difensive più ampie.
Nel dibattito si sono poi inseriti i conflitti, sempre più evidenti, tra lo stesso Gratteri e il ministro della Giustizia Carlo Nordio. Due visioni della giustizia si confrontano: quella di Gratteri, ancorata a un approccio fortemente operativo e di tutela della collettività, e quella di Nordio, ispirata a un modello più liberale e garantista, volto a ridurre la discrezionalità dell’azione penale.
È un confronto che riflette la tensione storica tra magistratura e politica, tra l’esigenza di assicurare libertà e quella di garantire sicurezza. Gratteri, inoltre, ha espresso la propria contrarietà alla separazione delle carriere tra magistratura requirente e giudicante, sostenendo che tale divisione potrebbe minare l’unità del corpo giudiziario e la sua indipendenza complessiva. Nella sua prospettiva, la magistratura deve restare un potere autonomo, capace di resistere a pressioni esterne, ma questa autonomia, come ogni forma di potere, deve rimanere ancorata alle garanzie costituzionali e non tradursi in autoreferenzialità. Una giustizia efficiente e credibile deve essere indipendente, ma anche trasparente e responsabile verso la collettività.
Accanto a queste questioni, vi è un aspetto che non ha ricevuto la dovuta attenzione e che sta assumendo i contorni di una vera emergenza: la condizione dei collaboratori di giustizia. L’applicazione da parte del Ministero dell’Interno dell’articolo 48-bis del dpr 602/73, che subordina la capitalizzazione dei benefici economici al previo saldo dei debiti erariali, ha finito per disattendere la ratio della legge speciale sui collaboratori, nata per garantire loro un reinserimento sociale al termine del programma di protezione.
Questa decisione, apparentemente burocratica, ha avuto effetti profondamente penalizzanti. Si è infatti preteso di considerare i collaboratori come debitori dello Stato, quando invece essi rappresentano strumenti probatori fondamentali per l’attività delle procure. È un’impostazione che compromette la possibilità di una reale rinascita personale, negando a chi ha scelto di collaborare la prospettiva di una vita autonoma e legale. Sorprende che su questo punto non si sia sollevata alcuna voce istituzionale di rilievo, né da parte della magistratura né della politica, nonostante le gravi implicazioni sul piano umano e giudiziario.
Seguendo collaboratori e testimoni di giustizia da circa trent’anni, mi rendo conto che tutti i principali processi delle Direzioni Distrettuali Antimafia sono stati costruiti e sostenuti dagli elementi dichiarativi e probatori forniti proprio dai collaboratori di giustizia. Per questo mi sarei aspettata, da parte di chi ha gestito uno dei più importanti procedimenti antimafia d’Italia – paragonato dallo stesso Gratteri ai processi condotti da Falcone e Borsellino per ampiezza e numero di imputati – una maggiore attenzione verso questo terreno tanto delicato quanto essenziale.
È su questa base che si regge gran parte dell’attività investigativa antimafia, eppure si assiste a un progressivo indebolimento del sistema di protezione, con un numero sempre minore di persone disposte a collaborare a causa dell’incertezza normativa e della mancanza di garanzie concrete. Mi auguro che le procure e il legislatore colgano la gravità di questa situazione, fornendo direttive chiare e strumenti adeguati per colmare un vuoto legislativo che rischia di compromettere un patrimonio giudiziario costruito in decenni di sacrifici.
È urgente una revisione della normativa speciale, oggi profondamente amputata, che restituisca ai collaboratori la possibilità di intraprendere una vita autonoma, soprattutto sul piano economico, per evitare il rischio di ricadute nella devianza. Negare questa possibilità significa non solo tradire la funzione rieducativa e protettiva della legge, ma anche favorire, seppur indirettamente, la ripresa delle stesse logiche criminali che si intendono combattere. Una giustizia che chiede coraggio non può voltarsi dall’altra parte quando si tratta di garantire dignità e futuro a chi ha scelto di stare dalla parte dello Stato.
*Avvocato
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