di IACOPO PARISI
Il Performing Festival 2025 continua a disegnare un paesaggio articolato delle arti performative contemporanee, muovendosi tra linguaggi diversi ma profondamente connessi: il corpo vivo dell’artista, la dimensione teorica del pensiero, l’immagine come spazio di riflessione e trasmissione.
Nel suggestivo chiostro del complesso monumentale San Giovanni, ieri sera si è svolta una delle performance più intense e visivamente potenti del Performing Festival 2025: “Hasta tu orilla” di Regina José Galindo, artista guatemalteca nota in tutto il mondo per le sue azioni performative radicali, che fanno del corpo un campo di battaglia politico e poetico.
Immersa in una piccola barca colma d’acqua, installata al centro dello spazio, Galindo ha dato vita a un’azione breve ma di fortissimo impatto emotivo e concettuale. La scena, semplice nella costruzione ma densissima di significati, evocava in modo diretto e doloroso il tema delle migrazioni: l’attraversamento, la precarietà, il rischio, l’attesa. L’artista, silenziosa e immobile, sembrava sospesa in un tempo che non passa, in un viaggio che non arriva mai a destinazione.
Come in tutte le sue opere, anche qui il corpo diventa parola, denuncia, memoria. Non c’è finzione nella presenza di Galindo. È questo che rende il suo linguaggio tanto potente e necessario nel panorama dell’arte contemporanea. Galindo è tra le pochissime voci in grado di coniugare in modo autentico l’estetica dell’azione performativa e l’etica del messaggio politico sotteso.
“Hasta tu orilla” acquista un significato ancora più profondo in Calabria. A poco più di un anno dalla strage di Cutro che ha visto morire decine di migranti a pochi metri dalla riva, questa performance riporta al centro il tema della migrazione non solo come dramma umano, ma come responsabilità collettiva. La scelta di Galindo di portare qui una riflessione così densa e urgente non è casuale: è un atto di solidarietà, di memoria e di denuncia, che dialoga direttamente con la realtà sociale del territorio.
Stamattina, invece, la riflessione si è spostata su un altro piano: più teorico, ma non meno pregnante. Nel talk condotto da Dobrila Denegri all'Accademia di Belle Arti, con l’intervento della studiosa di arti performative Valentina Valentini, si è indagato il rapporto tra performance art e video, aprendo uno sguardo storico e critico su come la performance si sia trasformata, documentata, ibridata.
Valentini ha tracciato un quadro lucido di un’“arte viva” che, soprattutto fino agli anni ’80, si fondava sull’unicità dell’evento e sull’assenza di repliche. A differenza degli happening — preparati, replicabili, collettivi — la performance art nasce come gesto irripetibile, spesso radicale, in cui il corpo dell’artista è il dispositivo centrale. Ma cosa succede quando questa esperienza viene mediata, registrata, trasmessa?
È qui che entra in gioco la video performance, genere a sé stante: non un semplice documento, ma un'opera pensata direttamente per la videocamera, eseguita non per un pubblico dal vivo ma per lo sguardo meccanico del dispositivo. Una forma che apre a nuove possibilità narrative e simboliche, ma che porta con sé l’ambivalenza tra la presenza fisica e la sua riproducibilità.
In questo dialogo tra l’esperienza vissuta e la riflessione critica, il Performing Festival 2025 dimostra di essere molto più di una semplice rassegna: è un luogo in cui l’arte performativa diventa strumento di consapevolezza, interrogazione politica e memoria collettiva
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