di IACOPO PARISI
Marjan ha 29 anni, viene dall’Iran, ed è sopravvissuta a una fuga, a una prigione e a un’accusa ingiusta. La sua è una storia che, pur nella sua particolarità, parla di moltissimi: di chi cerca salvezza, di chi subisce la violenza istituzionale, di chi viene giudicato prima ancora di parlare.
Per mesi è rimasta invisibile, schiacciata nel silenzio. A ridarle voce è stato un incontro pubblico, organizzato ieri a Catanzaro presso il Centro Polivalente "Mario Rossi", da più realtà – tra cui Rete 26 Febbraio, Collettivo Sagitta, Associazione Amica Sofia, Jungi Mundu – che ha messo in relazione la sua vicenda personale con temi cruciali come la giustizia, l’accoglienza, e il referendum sulla cittadinanza.
Quel che emerge non è solo l’errore giudiziario, ma l’impianto culturale che lo ha reso possibile: la storia di Marjan interroga direttamente la nostra idea di giustizia, di ospitalità, di convivenza civile.
Marjan è una giovane donna iraniana, benestante, colta, madre. Non rientra nello stereotipo della “profuga povera e analfabeta”. Eppure, anche nella sua condizione privilegiata, era intrappolata: un marito violento, un sistema giuridico quello iraniano che in caso di divorzio o separazione le avrebbe comunque tolto il figlio per affidarlo al padre, anche se in carcere. Così decide di scappare: spende 15.000 euro (9.000 per sé, 6.000 per il figlio), si affida ai trafficanti, attraversa rotte pericolose. È costretta, come tanti, a cedere pezzi di libertà per tentare di conquistarne uno intero.
Quando Marjan arriva in Italia, invece di trovare salvezza, si ritrova in manette. Non parla italiano, non ha un avvocato, nemmeno un interprete adeguato. Le accuse sono gravi: favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, “scafista”. La pubblica accusa cerca di dipingerla come una privilegiata del viaggio: si dice che avesse un posto “riservato” sulla barca, che fosse parte dell’organizzazione. Ma le testimonianze dicono altro. Addirittura, il vero scafista, identificato e interrogato, testimonia a suo favore: Marjan non ha guidato, non ha organizzato, non ha collaborato. Eppure viene trattenuta. Il figlio di otto anni, suo unico punto fermo, le viene sottratto, venendo affidato ad una famiglia di Camini. Solo due mesi dopo ha potuto rivederlo per la prima volta, e dopo sette mesi di reclusione è potuta finalmente tornare a vivere con lui. Ed è proprio a Camini che oggi vivono Marjan e Faraz, ospitati e accolti dalla cooperativa Jungi Mundu, oggi rappresentata da Haseeb Bukhar. Un gesto di accoglienza che ha trasformato un'esperienza di detenzione e isolamento in una possibilità di ripartenza
Marjan racconta tutto con lucidità e dolore. E' inevitabile che la sua serenità sia minata dalla pesante attesa della sentenza definitiva, che avrà luogo il 16 giugno presso il tribunale di Locri. Un tribunale che, a partire dal caso Mimmo Lucano e continuando con il caso di Marjan, sembra accanirsi contro questo tipo di vicende.
Silvia Galiano, presidente del comitato 26 febbraio, ha seguito ogni fase del processo, raccogliendo documenti, testimonianze, contraddizioni. Ha raccontato, la dignità con cui Marjan ha ricostruito passo dopo passo il suo calvario, tra lacrime e silenzi. Il Comitato 26 Febbraio nasce in seguito alla tragedia di Cutro. Si è assunto il compito di denunciare le storture istituzionali e giudiziarie che colpiscono migranti, donne e minori. Con Marjan, il comitato ha scelto ancora una volta di, come dichiarato da Galiano, “stare dalla parte giusta della storia.
A rendere evidente il nodo politico e culturale che attraversa la storia di Marjan è stata la riflessione sul quinto quesito referendario, quello relativo alla cittadinanza. Elena De Filippis, dell’associazione Amica Sofia, ha ricordato quanto sia urgente superare una visione distorta e ideologica, spesso alimentata da esponenti del governo come Salvini e Meloni, che evocano il pericolo di “perdere l’identità italiana”. «Chi giunge qui non lo fa per darsi alla bella vita o delinquere, ma spinto da un bisogno essenziale», ha detto.
De Filippis ha ribaltato la narrazione dominante: accogliere non significa rinunciare a qualcosa, ma arricchirsi, come dimostrano tanti piccoli borghi rivitalizzati proprio grazie alla presenza di chi arriva da lontano. «Siamo un popolo nato dalla mescolanza: ospitare oggi vuol dire custodire il nostro passato e costruire futuro».
Una prospettiva condivisa anche da Gianmichele Bosco, presidente del Consiglio comunale, che ha voluto fare chiarezza sul referendum in generale e in particolare sul quinto quesito, spesso vittima di semplificazioni o manipolazioni: «Non si tratta di “regalare” la cittadinanza dopo cinque anni. Quello che si propone è che dopo cinque anni di permanenza regolare in Italia possa iniziare la procedura. E non è affatto una procedura semplice: in Italia richiede anni, è lunga, complessa, piena di ostacoli burocratici». Il suo appello, è andato al cuore del messaggio politico dell’intero incontro, con un riferimento al recente decreto sicurezza: «Chi governa dovrebbe tutelare il contraente debole. Invece, oggi, è proprio quest’ultimo a essere schiacciato. È il momento di invertire la rotta. Abbiamo un’occasione concreta. Convinciamo più persone possibile ad andare a votare. E chi è contrario, abbia almeno il coraggio di spiegarci perché».
A moderare l’incontro è stata Sara Iiritano del Collettivo Sagitta, che ha aperto con una forte riflessione sul referendum per la cittadinanza, collegandolo alla necessità di garantire diritti e futuro a chi fugge da guerre, violenze e povertà. Un collegamento politico chiaro: la storia di Marjan non è un caso isolato, ma l’emblema di una giustizia che può diventare ingiusta, se non guidata da empatia e responsabilità.
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