
di FRANCO CIMINO
L’ingegnere Angotti — Giovanni, Gianni, o semplicemente Giannino, come, permettendomi una certa confidenza, lo chiamavo io — aveva tanti nomi, ognuno legato al grado di familiarità con chi lo pronunciava. Oggi la notizia della sua scomparsa è corsa in un baleno: improvvisa, inattesa, dolorosa. E tutti lo hanno chiamato come forse lui avrebbe voluto: l’ingegnere Angotti, semplice e intero.
In quella parola, “ingegnere”, c’era il titolo che più di tutto lo rappresentava e al quale teneva profondamente. Lo era per indole, per vocazione, forse per nascita.
Tutto il resto — gloria, riconoscimenti, successi — se lo guadagnò con studio tenace, competenza, visione. Nel mestiere eccelleva per intelligenza e coraggio, esplorando con metodo e curiosità i campi più avanzati della tecnica. Gli articoli e i commenti apparsi subito dopo la notizia ne hanno ricordato le imprese e gli incarichi di rilievo, nazionali ed europei, con cui contribuì a far avanzare l’ingegneria italiana.
La Calabria, e Catanzaro in particolare, gli devono molto: opere, progetti, idee. Tra questi spicca la metropolitana di Catanzaro, inizialmente chiamata “il Pendolo”. Un’iniziativa che egli contribuì a spiegare e difendere con chiarezza e competenza, tanto da ottenere l’approvazione unanime del consiglio comunale (legislatura 2006–2011). Lo ricordo bene, perché ne condivisi la visione e, pur sconfitto alle urne da Rosario Olivo, sentii come mia la soddisfazione di veder nascere un progetto che avrebbe cambiato il volto del capoluogo, era centrale nel mio programma elettorale.
Ma Giovanni Angotti non era soltanto l’ingegnere di fama o il politico esperto. Era un uomo di pensiero e di passione. Nella sua militanza socialista, fu segretario di federazione e protagonista di un confronto serrato e costruttivo con le altre forze politiche — la Democrazia Cristiana e il Partito Comunista — sempre in nome dello sviluppo di una Catanzaro più centrale, viva e moderna.
La sua intelligenza lo distingueva anche come oratore: asciutto ma incisivo, lucido e provocatorio, capace di dire l’essenziale con forza e misura. Alcune sue posizioni aprivano dibattiti accesi, ma sempre fertili, sempre animati da una visione di progresso.
Fu un uomo autorevole, ma non autoritario; deciso, ma non rigido. In quel carattere apparentemente severo si nascondeva un’ironia intelligente, un sorriso che sapeva sdrammatizzare e creare simpatia. Per questo, chiunque lo abbia conosciuto gli portava rispetto e affetto sinceri.
E poi c’era Giovannino, l’uomo privato, quello che pochi raccontano: l’uomo tenero, sentimentale, profondamente legato alla moglie Gigliola, donna bellissima, elegante, gentile.
Erano inseparabili. Li si vedeva spesso passeggiare insieme per Catanzaro, o al cinema, o soprattutto al Teatro Politeama, dove erano abbonati da sempre, sempre negli stessi quattro posti: i loro due e altri due per i figli. Io li vedevo a ogni spettacolo, perché non ne ho mai perso uno. Erano seduti nella fila F, io nella D. Ci si salutava, si parlava con affetto nell’intervallo, si rideva con discrezione. Pochissima politica, mai polemica. Solo qualche battuta — ironica, amara, intelligente — sullo stato della nostra città e della nostra Calabria.
Loro due erano un piccolo spettacolo nello spettacolo: un esempio di eleganza, di amore, di cittadinanza civile. Poi, quando la signora Gigliola è scomparsa, Giannino non venne più al Politeama. E, da quel giorno, la sua presenza in città si fece sempre più rara. Alla domanda “Come sta papà?”, i figli rispondevano: “È in studio, lavora ancora tanto, ma esce poco…”. Poi: “Un po’ di meno…”.
Oggi, la notizia della sua morte ci coglie di sorpresa. Perché è difficile pensare che un uomo come lui — forte, resistente, imponente — potesse davvero andarsene. Ma chi lo ha conosciuto sa la verità più dolce e più dolorosa: Giannino ha cominciato ad andarsene il giorno in cui ha detto addio alla sua Gigliola.
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