Conidi Ridola: “Famiglia, violenza e nuova tutela dei minori. La sentenza che segna un cambio di passo"

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  26 novembre 2025 21:38

di M. CLAUDIA CONIDI RIDOLA*

Chi non ha mai assistito, da piccolo, a una lite in famiglia, magari accesa, dove alle parole si aggiungeva qualche spintone o un ceffone di troppo? Una volta accadeva e non ci si faceva caso: era considerato “normale”, parte del modo in cui un genitore o il cosiddetto capofamiglia imponeva l’andamento della casa. Non esistevano gli strumenti per denunciare, né la consapevolezza che determinate dinamiche potessero essere fonte di danno, che il silenzio dei figli non significasse accettazione ma impossibilità di opporsi. Col tempo, però, si è evoluto non solo il concetto di famiglia, ma anche quello di responsabilità genitoriale: il nucleo domestico non è più una struttura piramidale, imposta dall’autorità di chi “comanda”, bensì una comunità volontaria, paritaria, in cui ogni componente ha diritti propri e un valore autonomo. In questo nuovo orizzonte, atti di violenza e prevaricazione non sono più tollerabili né giuridicamente né culturalmente. La legge ha finalmente riconosciuto che il benessere dei soggetti all’interno della famiglia, e soprattutto dei minori, è un bene primario da tutelare, perché la vulnerabilità dei più piccoli non è un dettaglio ma il punto da cui parte l’intero equilibrio domestico. 

Sappiamo bene che l’esposizione dei minori a episodi di violenza non rimane mai circoscritta al momento in cui si verifica: crea un’abitudine alla sopraffazione che rischia di radicarsi nella loro visione del mondo, diventando un modello distorto delle relazioni affettive. E quando quei bambini diventano adulti, quella violenza subita di riflesso può trasformarsi in violenza agita, non solo verso i familiari, ma verso terzi, verso i compagni di scuola, verso qualsiasi figura percepita come fonte di autorità. I comportamenti oppositivi, le contestazioni continue degli adolescenti, la loro ribellione spesso silenziosa ma costante non sono semplici “capricci”: sono la traduzione psicologica di una violenza che non hanno potuto comprendere né elaborare e che, pertanto, ritorna sotto forma di dissociazione o protesta. Poiché l’educazione parte dalla famiglia, la qualità delle relazioni domestiche non è un fatto privato, ma un investimento sociale sul futuro degli individui. Ed è proprio in questa cornice che assume enorme rilievo la recente decisione della Corte di Cassazione, che ha riconosciuto come circostanza aggravante autonoma la presenza di un minore durante un episodio di violenza domestica, anche quando si tratta di un singolo fatto e non di una condotta abituale. 

La Corte afferma un principio fondamentale: basta un solo episodio perché la presenza del minore diventi elemento aggravante, perché anche un’unica esposizione può segnare profondamente la crescita emotiva e cognitiva di chi assiste. Non è più necessario dimostrare una sistematicità della violenza, perché ciò che conta è l’impatto reale e immediato sulla persona vulnerabile. Si tratta di un passo avanti importante, che va nella direzione di una tutela piena dei minori, riconoscendo che la violenza domestica non è mai un affare privato tra due adulti, ma un fenomeno che si irradia su tutti i presenti. 

Anche gli adulti non destinatari diretti delle aggressioni possono riportare conseguenze psicologiche e relazionali, ma nei minori l’effetto è più profondo e più duraturo, e per questo merita una protezione rafforzata. Da avvocato non posso che salutare questa pronuncia come un segnale di maturità del nostro sistema giuridico: finalmente si riconosce che la violenza in famiglia non è solo un fatto penalmente rilevante, ma un detonatore sociale, un germe che compromette la capacità affettiva, la fiducia e la stabilità emotiva delle future generazioni. Rafforzare e ampliare questo orientamento non è un atto punitivo, bensì un dovere verso chi, più fragile, rischia di pagare per tutta la vita le colpe degli adulti.

*Avvocato


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