di CARLO MIGNOLLI
Federico Buffa torna in scena a Catanzaro e lo fa con lo spettacolo “La Milonga del Fútbol”, in programma sabato 26 ottobre alle ore 21:00 al Teatro Politeama, per l’unica data in Calabria. Con la regia di Pierluigi Iorio, accompagnato dalle note al pianoforte di Alessandro Nidi, dalla voce di Mascia Foschi e dalle luci firmate dal designer Francesco Adinolfi, Buffa propone un viaggio tra musica e parole alla scoperta delle gesta di quattro leggendari mancini che hanno segnato la storia del calcio argentino e mondiale: Renato Cesarini, Omar Sivori, Diego Armando Maradona e Lionel Messi.
Il racconto si snoda attraverso le vite di questi campioni, intrecciando le loro vicende personali con i grandi momenti storici e sociali dell’Argentina. Si parte da Renato Cesarini, famoso per i suoi gol nei minuti finali delle partite, che ha dato il nome alla famosa “Zona Cesarini”. Fu lui a scoprire il talento di Omar Sivori, che incantò l’Argentina negli anni ’50, un periodo di grande fermento economico e sociale. Il racconto prosegue con l’intramontabile Diego Armando Maradona, “el pibe de oro”, che negli anni ‘80 e ‘90 diventò l’eroe di un paese in cerca di riscatto dopo la dittatura e la recessione, e si conclude con Lionel Messi, simbolo del calcio moderno, che ha riportato l’Argentina sul tetto del mondo nel nuovo millennio.
Buffa ha raccontato ai nostri microfoni la genesi dello spettacolo, la particolarità della musica scelta, soffermandosi anche sui tratti comuni tra la passione viscerale dei tifosi catanzaresi e quella del popolo argentino per il calcio.
Partiamo dalla genesi dello spettacolo, “La Milonga del Futbol”, che sappiamo essere anche un libro. Da dove nasce, qual è stato il processo creativo dietro la scelta di intrecciare le storie di questi grandi campioni argentini?
«Nasce da quello che gli argentini chiamerebbero “la enfermedad”, cioè una malattia, nel mio caso una malattia per l’Argentina. Deriva dalla mia passione per il Novecento argentino, un secolo in cui è successo di tutto. Gli argentini, infatti, non partecipano a nessuna delle due guerre mondiali, anche se si iscrivono con colpevole ritardo alla Seconda Guerra Mondiale, quando la Germania era ormai distrutta, perchè speravano di ottenere il Mondiale del 1950, che invece andò al Brasile, un Paese che aveva mandato davvero le sue truppe, e ci sono anche vari cimiteri di guerra con soldati brasiliani, inclusi in Italia. Ma tutto il resto, tutto il resto è successo. Soprattutto nel Novecento, il calcio argentino si è evoluto in un modo unico, completamente diverso da quello degli altri. Non a caso, ogni vent’anni l’Argentina ha il miglior giocatore del mondo, cosa che non tutti possono vantare. Quando gli inglesi esportano il calcio lì, la prima partita risale al 1867, quindi molto prima rispetto all’Italia. Ma poi, quando gli argentini iniziano a giocare, si inventano il loro gioco, che chiamano “La Nuestra”. Gli inglesi hanno inventato il gioco, gli argentini hanno inventato l’amore per il gioco, e su questo credo non ci siano obiezioni».
Tre dei quattro grandi protagonisti del suo spettacolo - Cesarini, Sivori e Maradona - hanno lasciato un’impronta indelebile anche nel calcio italiano. Come ha influito, secondo lei, l’esperienza in Italia sulla loro crescita e sul loro modo di giocare e in che modo questo legame tra Argentina e Italia emerge nella narrazione dello spettacolo?
«Cesarini e Sivori erano italiani, Maradona per metà e non è un caso che siano venuti qui, in parte per questioni storiche, ma Sivori non era obbligato a venire in Italia. A differenza di Cesarini, Sivori poteva andare al Real Madrid e invece andò alla Juventus perché il suo maestro, che è proprio Cesarini, gli disse che poteva giocare solo in una squadra: lui lo ascoltò e non se ne pentì. Anche Maradona poteva andare alla Juventus, ma non ci andò, sebbene Sivori spingesse molto per questo. Alla fine, stiamo parlando di 10 titoli italiani e tre Palloni d’Oro. Obiettivamente stiamo parlando di magia, e sono tutti collegati tra di loro. Cesarini era italiano anche di nascita, ma visse fin da piccolo a Buenos Aires. Sivori fu scoperto da Cesarini, era figlio di immigrati, uno ligure e uno abruzzese, e poi c’è Maradona. Tre argentini di epoche diverse, ma tutti collegati tra loro».
Lo spettacolo è un viaggio musicale oltre che narrativo. Come vede il rapporto tra il calcio, che spesso è descritto come arte, e la musica? In che modo la musica di Alessandro Nidi e la voce di Mascia Foschi contribuiscono a rafforzare il racconto calcistico?
«Questa è la prima volta che mi viene fatta una domanda così bella, perchè valorizza anche le persone che lavorano con me. Lo spettacolo ha un ritmo dettato dalla musica: molte volte io seguo ciò che loro suonano e cantano. Traduco dei tanghi per far comprendere quanto tango e calcio in Argentina siano cresciuti insieme, su strade parallele, ma una accanto all’altra, con la stessa origine e tempistica. Recentemente ho inserito un pezzo di Carlos Gardel, il più grande tanghista di tutti i tempi. Nel 1928 Gardel canta un tango dove sono menzionati tre calciatori, tra cui Luisito Monti, uno dei protagonisti della storia, che giocò nella Juventus e poi nella nazionale italiana, vincendo il Mondiale. È impensabile, fuori dall’Argentina, che il numero uno della canzone argentina dedichi un tango a dei calciatori. Ma lì considerano i calciatori artisti già dagli anni ’20, mentre qui ancora adesso sentiamo dire che sono solo milionari che corrono dietro a un pallone. Questo argomento mi fa molto riflettere».
Lo spettacolo si terrà a Catanzaro, una città che vive di calcio e che è legata a una sua icona calcistica, Massimo Palanca, anche lui celebre mancino e protagonista della storia del club nella massima serie. Palanca, come i grandi protagonisti del suo spettacolo, è stato un mancino eccezionale, capace di segnare gol leggendari, anche direttamente da calcio d’angolo. Ha un ricordo legato a questo calciatore e cosa crede renda i mancini così speciali nel mondo del calcio, e in che modo Palanca può essere paragonato ai grandi mancini argentini di cui racconta, per la sua capacità di incantare i tifosi?
«Innanzitutto tutto è una questione genetica: il mancino ha un modo di trasferire gli impulsi dall’emisfero del cervello che controlla il movimento del calciare molto più rapidamente rispetto a un destro o un ambidestro. Questo garantisce loro una velocità di reazione superiore. Nel caso di Diego, però, parliamo di un caso irripetibile. Tutti pensano che il “gol del secolo” sia il più bello di Diego. Io non sono d’accordo. Per me ci sono altri gol ancora più belli. Quel gol è fantastico, ma ha bisogno che gli inglesi non lo stendano. Un italiano o un tedesco lo avrebbero fermato subito. Invece, secondo me, il gol più bello è quello segnato contro il Milan. Anche se lì non è solo una questione di essere mancino, ma di un sistema nervoso senza paragoni. Lui fa una cosa che se viene analizzata da un neuroscienziato non saprebbe come rispondere perchè è un gesto che può fare un felino, ha una coordinazione che non può appartenere a un essere umano. Per quanto riguarda Palanca, ho molti ricordi e lo cito spesso nei miei racconti, perché per me è una sorta di “vecchio fenicio”, capace di intuire il vento e usarlo nel suo gioco. Come molti giocatori cresciuti in zone come la Calabria o la Sardegna, ha saputo trasformare il vento in un alleato, ed è un concetto che trovo affascinante».
Catanzaro, come l’Argentina, è una terra dove la passione per il calcio è profondamente radicata nella cultura e nell’identità del popolo. Secondo lei, quali tratti comuni si possono trovare tra la passione viscerale dei tifosi di Catanzaro e quella del popolo argentino per il calcio? Ci sono aspetti emotivi o sociali che accomunano queste due realtà così distanti geograficamente, ma unite dall’amore per il pallone?
«Buenos Aires e Rosario hanno una forte presenza e impatto calabrese. Nello spettacolo dico una cosa che mi sta molto a cuore: gli italiani arrivati in Argentina si accorgono che il cielo è molto più ampio rispetto ai paesaggi collinari da cui provenivano, così cercano di ricostruirli a modo loro, proprio perché gli era difficile vivere in un luogo così spazioso, non essendoci abituati: i Zanetti e i Cambiasso, che sono piemontesi, piantano il nocciolo, i Batistuta piantano i larici di abete e i Milito, calabresi, piantano la palma. C’è tanta Calabria in Argentina ed è naturale che ci siano molti punti in comune. Per me, narrare storie come questa a Roma o Milano è molto importante e mi lusinga, ma raccontare a Catanzaro una storia che ha a che fare con il territorio è uno dei motivi che mi ha spinto a realizzare questo spettacolo, anche con la metà degli spettatori che solitamente assistono ai miei racconti. “La Milonga del Futbol” appartiene a tanti italiani, non è di nessuno in particolare, ma di tutti».
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