Foibe: l'intervista all'esule istriano Silvano Scherl

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Silvano Scherl
  08 luglio 2019 16:55

di PAOLO CRISTOFARO

SCOLACIUM – Ha 87 anni, vive ormai da tempo a Roccella Jonica, ma è istriano d’origine, di Fianona. Si chiama Silvano Scherl, classe 1932. Durante la Seconda Guerra Mondiale si è salvato da una fucilazione delle SS, grazie ad uno dei militari che lo distinse nella mischia, vedendo che parlava tedesco. Dopo il 1945 ha vissuto gli anni terribili delle persecuzioni dei comunisti di Tito, contro gli italiani. Persa la casa, fu costretto alla fuga con la famiglia. A Trieste, a Udine e poi a Napoli, in un campo profughi. Nonostante l’età, un grande desiderio di dare testimonianza di quanto accaduto, di raccontare una vicenda ancora spigolosa e poco nota. Lo abbiamo incontrato al Parco di Scolacium, a Roccelletta di Borgia, in occasione del convegno “Foibe e confine orientale”, promosso dal Miur e dal Comitato “10 febbraio”.

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Cosa ricorda di quegli anni? «Ero un ragazzo. Avevo già sperimentato brutte avventure durante la guerra. Le SS mi avevano già messo al muro, stavo per morire. Poi un militare notò i capelli chiari, i miei occhi azzurri, vide che parlavo tedesco. Mi chiese se fossi tedesco e per salvarmi risposi di sì».

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Cosa accadde dopo la guerra? «CI fu una fase transitoria. Noi avevamo lottato per la Libertà in fondo. Pensavamo che le cose, quindi, sarebbero andate bene. Iniziavano a riaprirsi le scuole, frequentate da italiani, anche con insegnanti italiani. Poi il caos. Iniziò una persecuzione senza motivo. Persino mio padre stava per essere processato dai titini. Poi un nostro parente, capo del gruppo partigiano, li fermò, dicendogli che era di famiglia, che non c’entrava nulla, come tanti altri dopotutto, che però non si salvarono e morirono torturati o nelle foibe».

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La sua famiglia come è stata coinvolta? Perché siete scappati? «Avevamo delle proprietà. Possedevamo delle case, una fattoria, facevamo il nostro lavoro. Ci è stato sequestrato tutto, dalla sera alla mattina. Tutto quello che avevamo non era più nostro. Nella notte c’erano rastrellamenti, al pari di quelli tedeschi fino al ’45. Da piccoli eravamo curiosi e scoprimmo, con altri ragazzi, una stanza dove torturavano i prigionieri, italiani innocenti… non erano fascisti di certo. Venivano costretti a correre a testa bassa contro un muro. Ricordo ancora le macchie di sangue su quella parete e le ciocche di capelli attaccate».

Cosa avete fatto voi? «Abbiamo deciso di scappare, di andare via. Siamo saliti alle 6 di sera su camion. Era il mese di gennaio, c’erano 5 gradi sotto lo zero. Il camion era scoperto. Eravamo digiuni da una giornata, perché l’avevamo passata a caricare le poche cose nostre sul mezzo. Il viaggio di notte fu tremendo. Ci salvammo dal freddo per un fiaschetto di grappa che avevamo con noi. Arrivammo a Triste prima, poi a Udine, infine a Napoli, in campo profughi con acqua e servizi igienici all’esterno».

Com’è stato, alla fine, sentirsi al sicuro? «Non si può descrivere l’assenza totale di libertà se non la si prova. Quando scesi da quel camion, una volta arrivati, respirai intensamente. Qualcuno se ne accorse e mi chiese perché facessi in quel modo. Respiravo l’aria della libertà».

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