
di FRANCO CIMINO
Tre giorni fa è stata celebrata la giornata mondiale della povertà. Che bello, finalmente i poveri al centro dell'attenzione mondiale! Finalmente una festa per loro. E che festa! Ci mancherà poco, magari soltanto il tempo della prossima, che a loro sarà concessa una onorificenza, come quelle che sta collezionando Trump in giro per il pianeta. Magari con la stessa motivazione: "essere i veri artefici, i poveri, del processo di pace."
Eh sì, perché se non ci fossero i poveri, non ci sarebbero gli straricchi. E, anche se l'ampliamento della platea dei poveri sta consumando quella che un tempo era la colonna vertebrale della società liberale, la classe media, nella quale c'era una buona percentuale di benestanti, i poveri assolvono ancora a un ruolo straordinario, quello di legittimare la ricchezza ingiustificata. E quello di rafforzare la filosofia capitalista in una società che via via ha perso tutti i suoi veri capitali. In particolare, quelli umani e quelli morali, in ambedue dei quali risiedono il senso umano della vita, la cultura della vita nell'umanità e i valori della solidarietà e della democrazia. Quella vera, fondata sulla giustizia attraverso anche il più naturale equilibrio tra le classi e la più equa e giusta redistribuzione della ricchezza.
Redistribuzione pure secondo i due principi più storicamente accreditati, quello cristiano e quelli laici liberali. E cioè che al minimo della sostanza democratica, a ciascun cittadino, nel mondo, sia consentito e riconosciuto ogni bene fondamentale secondo capacità e bisogni individuali. Ma essere poveri oggi è bello. Altroché se lo è per chi li rende tali, almeno in quella giornata ciascuno si libera dalle colpe e si sente addirittura generoso. Quasi giusto. Di certo, democratico. È come se li riconoscesse, i poveri. Li vede, li chiama a sé. E col nome e cognome: poveri della povertà.
Bello allora questo giorno! Lo è per gli Stati e i governi. E lo è anche per le “chiese”. Di tutte le religioni. Si pensi alla mia, nella quale fortemente aderisco da sempre, quella cattolica. In questa giornata particolare, parrocchie, diocesi e perfino il Papa, incontrano i poveri e li invitano a pranzo. Tra poco arriverà Natale, e alla vigilia questo rito ormai sacro si rinnoverà, attraverso le tradizionali "cene per i poveri a Natale". O di Natale. Nei quali si nascondono i nuovi poveri, quelli che una volta erano tranquilli, quasi benestanti. I nuovi poveri per la perdita di forza reddituale. E che per dignità e residuale orgoglio, non si recano alle mense dei bisognosi. E neppure nei magazzini della “Banco Alientare”.
E sì, anche il Natale va celebrato secondo il suo significato più antico e per noi cristiani secondo i principi evangelici e l'esempio di Gesù. Almeno così ripete una vecchia “antropo-filosofia”( mi si lasci passare questo termine. Che fa tanto bene anche al commercio consumistico di questi quindici giorni di dicembre.
Il Natale è dei poveri. E per i poveri. Lasciamo stare che Gesù diceva, tutt'altro, a seguito di questo suo pensiero. Diceva che occorre liberare i poveri e tutti gli uomini dalla violenza e dall'ingiustizia. Diceva, se non ho capito male, che occorre, anche attraverso la fede, dare a loro la coscienza per riconoscere l'ingiustizia. E la forza e il coraggio per battersi contro di essa, esattamente come è stato fatto da lui, figlio di Dio, ma uomo, qui, in questa terra, dove è venuto per liberarla, non dimentichiamolo.
E allora, viva i poveri! Evviva la povertà. Evviva la guerra, e tutte le guerre. Anche se ci si ostina ancora, il potere lo fa, a negare la stretta corrispondenza fra le due realtà. E, invece, povertà e guerra sono strettamente unite. Oggi quasi fuse. Li unisce e li fonde lo stesso sentimento negativo che le origina, il disprezzo della vita, l'odio verso i diversi, specialmente quelli eletti quali nostri nemici. Li lega l'egoismo e la voglia sfrenata di quel potere invincibile e di quella forza incontenibile che lo muove: prendere e prendere. E rubare e rubare, risorse e ricchezze agli altri, popoli e persone, per farsi, gli aggressori, più forti e più ricchi.
Povertà e guerra sono legate dal fatto che le guerre hanno bisogno di uomini e donne, popoli. Tutti poveri, per farne eserciti armati contro il nemico. E loro bersagli. Farne,soprattutto, messaggeri di morte, la propria e quella degli altri, per rinvigorire la stupida retorica del mito della patria da difendere o da conquistare, da rafforzare. Tutti i miti, che la storia ci ricorda essere fondamentali nella cultura del fascismo. Di ogni fascismo. Delle dittature, di ogni dittatura. Di totalitarismo, di ogni totalitarismo, quello comunista dei vecchi regimi sovietici in primis.
Guerra e povertà sono inscindibilmente unite, per quella ragione che viene dalla propaganda del potere. Una ragione abilmente ancora mantenuta nascosta, e cioè che le guerre costano e tanto. Per gli armamenti sempre più cari, tanto più essi siano sofisticati, si pensi ai droni che a migliaia scendono dal cielo sulle popolazioni e sulle persone inermi. Le guerre costano per le distruzioni materiali che procurano. Di quelle delle vite umane, neppure parlo, perché mi vergogno. Costano non solo perché distruggono ciò che è costato molto per essere costruito. E costano ancora di più per ricostruire città e paesi dalle distruzioni. Costano ai bisogni anche dei paesi e delle genti non scese formalmente in campo di battaglia.
E siccome le risorse, di qualsiasi paese, e le risorse complessive del pianeta, non sono infinite, se tu spendi la maggior parte di esse, cioè le sprechi, per le guerre, è evidente che ne restano poche per l'occupazione, il lavoro, la salute e la sicurezza nel lavoro, per la salute e la sicurezza dell'ambiente. Ne restano poche per contrastare la disoccupazione e quindi conseguentemente far crescere il numero degli occupati. Ne restano poche per limitare il vertiginoso aumento dei prezzi delle materie prime e dei beni essenziali, come quelli alimentari e quelli per i medicinali. Ne restano poche per assicurare stipendi e redditi meno vergognosamente poveri, e più degni di essere considerati il giusto compenso al lavoro che si è svolto.
In questi giorni è stata celebrata la felicissima giornata dei poveri e della povertà. Oggi, come tutti i giorni precedenti, e gli altri a venire, celebriamo la giornata ininterrotta dello stretto connubio fra guerra e povertà. Il mio amico Don Mimmo, quel prete che hanno vestito di porpora, sulla quale lui ancora indossa l'abito di sempre, tutto questo lo dice continuamente. Lo denuncia con le sue parole ispirate dalla fede e scritte da poesia che gli si muove dal letto fino alle mani. E ancora non si stanca. E io con lui. Che ho deciso di parlarne e di dirne fino all’ultimo giorno in cui questa guerra finirà.
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