Lamenta il silenzio delle istituzioni Agostino Pantano, uno dei giornalisti dalle cui denunce è scaturita l'inchiesta che nei giorni scorsi ha portato al sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente da parte della Polizia nei confronti dei titolari della società di editoria multimediale Diemmecom. La misura cautelare reale emessa dal gip del Tribunale di Vibo Valentia aveva portato al sequestro di 26.300 euro nei confronti di due persone, con le cariche di amministratore unico ed institore della società. Gli indagati dovranno rispondere dei reati di indebita percezione di erogazioni a danni dello Stato e di installazione di apparecchiature atte ad intercettare comunicazioni tra altre persone. L’indagine è scaturita dalle dichiarazioni rese da alcuni giornalisti, dipendenti della società, i quali hanno riferito che l’editore avrebbe installato, in prossimità delle loro postazioni di lavoro, delle telecamere munite di microfono al fine di captare le comunicazioni in prossimità delle postazioni di lavoro. L’editore è anche accusato di aver fittiziamente ridotto l’orario di lavoro dei dipendenti del 30%, ricorrendo alla cassa integrazione guadagni, per scaricare parte dei costi del lavoro sull’Inps, nonostante – di fatto – fosse stato mantenuto dai lavoratori interessati il consueto orario di lavoro.
Pantano, la cui denuncia si riferiva al solo filone relativo alle presunte irregolarità nella percezione della Cig, sul suo profilo Facebook, oggi scrive: "Strana regione la Calabria dove la positiva retorica antimafia ci fa solidarizzare sempre con le vittime, o con chi va a denunciare, a patto che - però - non sia un giornalista. Il giornalista che denuncia no, non merita due righe di comunicato dei politici o della società civile, non merita che arrivino Report e Ranucci sospinti dall'indignazione social che - per altri temi che riguardano il potere degli altri - fa perfino salotto. Capita che io dopo aver interrotto un contratto a tempo indeterminato sia andato a denunciare alla Polizia delle cose, capita che io abbia dovuto fare questa scelta dolorosa - e antieconomica - rivendicando paghe e diritti giusti, capita che un giudice dica che il fatto merita una inchiesta e una misura mobiliare a mia tutela - e a tutela dello Stato - e capita, però, che io che sono giornalista, e quindi abituato alla comunicazione, non la possa spiegare questa cosa".
Anzi, prosegue, "capita che io venga fatto passare per un traditore, come colui che ha tolto il pane dalla bocca dei figli di un lavoro che io ho semplicemente raccontato a chi per dovere deve assicurare Giustizia e Legalità". Io, argomenta, "ho semplicemente detto stop, ai controlli e alle buste creative: non voglio medaglie, ma certamente non posso accettare l'etichetta di "mpamu" (infame, ndr) e se altrove il sospetto controllo del lavoro giornalistico con l'occhio elettronico e il sospetto sfruttamento di quel lavoro - e delle provvidenze statali - suscita quanto meno morbosa curiosità, e qui da noi sembra acqua fresca, me ne faccio una ragione".
All'indomani del sequestro, era stata la Diemmecom a fornire la sua versione dei fatti con una nota pubblicata sul suo sito: "La Questura di Vibo Valentia ha dato esecuzione a due provvedimenti di sequestro emessi dall’Autorità Giudiziaria nei confronti di Diemmecom, relativi a fatti denunciati da ex dipendenti delle predette società. Il primo provvedimento è relativo all’utilizzo di telecamere nei luoghi di lavoro. Dopo aver proceduto alla perquisizione all’interno degli immobili delle società, l’attività di indagine, che si è spiegata per oltre quattro ore ed in luoghi diversi, ha portato al sequestro di alcune telecamere e di un apparato DVR, allocati in locali di uso comune e immediatamente rinvenibili. Nulla è stato rinvenuto negli altri luoghi oggetto di perquisizione. L’altro provvedimento - scrive l'azienda - attiene un sequestro preventivo di 26.300 euro relativi al ricorso alla cassa integrazione fatto da parte delle aziende. L’attività è stata oggetto di una comunicazione della Questura, rilanciata con enfasi e titoli ad effetto che hanno ovviamente creato incredulità nei confronti dell’opinione pubblica, con l’utilizzo di termini quali “spionaggio”, francamente surreali e fuori luogo". La società precisa, inoltre, che "le telecamere di sicurezza servono, come in qualunque azienda e in maggior modo nei settori che si occupano come noi di comunicazione e informazione, a tutelare costose attrezzature e preziose dotazioni tecnologiche che annualmente impegnano centinaia di migliaia di euro in investimenti. Riesce francamente difficile comprendere come possa una telecamera di sicurezza “intercettare comunicazioni tra persone” e come tale attività possa, anche solo in ipotesi, costituire fatto di reato".
Le telecamere di sicurezza, si sottolinea, "erano e sono visibili a tutti coloro che accedono nella struttura, e sono state collocate - si fa rilevare - nell’immobile per esclusive ragioni di tutela del patrimonio. Restiamo stupiti dal fatto che delle telecamere di sicurezza regolarmente autorizzate dall’Ispettorato Territoriale del Lavoro di Vibo Valentia, in uso in tutte le aziende, possano essere narrate come strumento di “spionaggio” di giornalisti, tecnici, operatori e amministrativi".
Quanto al sequestro dei 26.300 euro, "attesa - si spiega - la natura sicuramente ipotetica della contestazione formulata (il provvedimento parla di fumus ed esclude categoricamente la configurabilità del reato di truffa) e, quindi, ancora prima dell’accertamento definitivo dei fatti, ci chiediamo quale sia stata la necessità di procedere “al congelamento” di tale somma per preservarne la confisca, visto che si tratta di società che fatturano mensilmente cifre di ben altra consistenza. Avremo comunque modo di comprendere quale sia la ratio del sequestro di tali somme, per fatti ancora indagati allo stato embrionale, quando le società di cui si tratta non hanno fatto in alcun modo ricorso a provvidenze legate ai “fondi Covid” ed è a tutti nota l’entità delle truffe che hanno interessato il settore, queste si di interesse per l’opinione pubblica".
Anche i giornalisti delle testate del gruppo (LaC News24, IlReggino, IlVibonese, Cosenza Channel e Catanzaro Channel) difendono l'azienda: "L’intero corpo redazionale - si legge in una nota pubblicata sempre sul sito dell'azienda - smentisce e respinge con fermezza simili fantasiose ricostruzioni. Illazioni che non trovano alcun riscontro nella realtà. Abbiamo sempre svolto e continueremo sempre a svolgere il nostro lavoro nel rispetto delle regole deontologiche, perseguendo come unico fine quello di informare i nostri lettori, liberi da qualsiasi condizionamento interno o esterno".
La presa di posizione dei giornalisti del gruppo, tengono a sottolineare i cronisti, non è una difesa dell'azienda nei confronti dell'operato degli inquirenti, bensì la rivendicazione della correttezza del loro operato che, ribadiscono “non ha mai subito censure”. “Su quanto contestato all’azienda in merito al presunto uso illegittimo di apparecchiature di videosorveglianza non abbiamo espresso alcuna considerazione. Sarà l’autorità giudiziaria - si precisa - a valutare e la nostra azienda avrà modo di difendersi e spiegare le sue ragioni. Ma contestiamo con forza e rispediamo al mittente fantasiosi episodi di censura citati in articoli di stampa, che non si sono mai verificati. Noi difendiamo la correttezza del nostro lavoro”.
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