di GUIDO TALARICO
Il Comune di Catanzaro lo scorso luglio ha conferito a Massimo Palanca la cittadinanza onoraria. Arriva dopo quella concessa nel 2016 a Claudio Ranieri, reduce dai successi di Leicester. Due nomine che rappresentano il segno chiaro di quanto la città sia legata alla Catanzarese della prima serie A. Del resto quella squadra è rimasta veramente nel cuore e nello spirito del luogo. E a ragione. La promozione nella massima serie calcistica non fu solo un evento sportivo. Fu un momento di riscatto e di esaltazione. Era infatti la prima squadra calabrese a raggiungere la serie A. E non a caso in curva, ma anche ai distinti e in tribuna, tutti, unendo le due conquiste, gridavano “Catanzaro chachacha, capoluogo e serie A”.
Quella storica promozione veniva dopo anni difficili. Una città messa in discussione, col calcio provava al mondo che il capoluogo di regione era meritato, che la città più importante della Calabria era effettivamente quella che stava su tre colli, giusto al centro di una regione lunga 400 chilometri. La cittadinanza onoraria concessa a Ranieri e Palanca va letta in questi termini: sono il difensore e l’attaccante migliori che la città abbia avuto, ma soprattutto incarnano un sentimento di riscatto. Insomma, il comune sentire della cittadinanza li vede come i cavalieri senza paura e senza peccato, gli eroi che riuscirono con le loro gesta a toccare l’orgoglio di una città ferita dalla lotta con Reggio, scossa dalla caduta del Carcere di San Giovanni, frustrata da una classe dirigente che non sapeva dargli un appiglio cui aggrapparsi.
Il Catanzaro per la prima volta in Serie A e le stagioni che ne seguirono furono tutto questo. Giusto dunque gratificare con la cittadinanza onoraria i simboli di quella meravigliosa ed indimenticabile stagione, anche perché entrambi sono rimasti attaccati alla città. Ed è bello anche che la nomina di Palanca sia arrivata nel momento in cui la squadra è finalmente tornata in serie B. Fatta questa doverosa premessa, mi permetto di proporre ad una riflessione pubblica il fatto che forse è venuto il momento di pensare alla nostra città anche in modo diverso.
Se ne saremo capaci, dovremmo allargare lo sguardo e provare a cambiare un po’ il registro del nostro orgoglio, del nostro “sentire” la città in cui siamo nati. Catanzaro, nonostante tutte le difficoltà che ha attraversato, non è più quella degli anni ’70. A mio avviso è decisamente migliorata. Certo non come il resto del sud, ma sicuramente ha fatto passi in avanti. E allora perché non dare vita ad una nuova fase che aggiunga alle emozionanti suggestioni calcistiche anche qualcosa di più profondo? La cultura del ricordo è uno strumento potente, capace di produrre risultati importanti anche negli ambiti più difficili. Allora perché non provarci anche a Catanzaro? Perché celebrare solo gli idoli sportivi? La risposta è semplice ed è quella che purtroppo caratterizza in larga parte l’agire pubblico contemporaneo e, ben inteso, non solo quello catanzarese. La politica, in altre parole, è lo specchio della società. Sergio Abramo con Ranieri, come Nicola Fiorita con Palanca, non hanno fatto altro che “leggere” un sentimento e tradurlo in un atto amministrativo. Quindi è inutile questionare: rappresentano quello che siamo, o, se volete, abbiamo quello che ci meritiamo. Del resto, come dicevo, il populismo è una pratica molto diffusa nella politica di oggi, sempre di più impegnata a seguire la pancia dell’elettorato e di meno quel che indica la competenza o la giusta opportunità.
Ma senza fare voli pindarici e proprio utilizzando lo strumento del merito e del ricordo non si può fare qualche cosa di più nel valorizzare il nostro capoluogo? Qualcosa che si sommi e vada oltre lo sport? Azzardo qualche ipotesi. Abbiamo fatto abbastanza per celebrare Renato Dulbecco? Si, gli abbiamo dedicato un’azienda ospedaliera, ma non si poteva fare di più? Quante città d’Italia possono vantare un Nobel per la medicina? Forse avremmo potuto dedicargli un corso universitario, un premio, una piazza? Non vi pare? E Mimmo Rotella? E’ uno dei massimi artisti del ‘900. E’ esposto in tutto il mondo e da noi? Poco o niente. Non un museo, non un evento… Abbiamo alcune eccellenze culturali come il San Giovanni, il Marca e, soprattutto, il Parco delle Biodiversità. Gli uffici postali di Corso Mazzini hanno un bassorilievo del grande Rotella che non è neppure segnalato e che la maggior parte dei catanzaresi non sa neanche che è una sua opera. Abbiamo un gigante ma non sentiamo il dovere di rendergli memoria e meriti.
Insomma, sarebbe una cosa doverosa per Rotella ma, soprattutto, ottima per la città. E restando a chi non c’è più, non sarebbe il caso di ricordare Mario Casalinuovo e Antonio Catricalà? Casalinuovo, il prototipo del catanzarese illustre, è stato il primo presidente del Consiglio Regionale e il primo ministro repubblicano (ai trasporti nel Governo V di Amintore Fanfani). Catricalà, un alto magistrato, con un cursus honorum eccellente, un vero servitore dello stato arrivato a essere Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei Ministri e Viceministro dello Sviluppo Economico. Antonio era genuinamente e fortemente attaccato alla città. Mi consta personalmente. Eppure, la città non gli ha dedicato neppure un’aula consiliare o del tribunale e lo stesso dicasi per Casalinuovo.
Per non parlare dei vivi. Gente che continua a fare grandi cose e a dare lustro alla nostra città. Qualche esempio. Giovanni Scambia è da anni ai vertici del Policlinico Gemelli di Roma. E’ uno scienziato, un luminare che il mondo invidia all’Italia. In una recentissima classifica di Newsweek, il Policlinico Agostino Gemelli, di cui Scambia è primario e direttore scientifico (nonché ordinario della collegata Università Cattolica), è stato inserito al settimo posto delle eccellenze mondiali. Tutti i catanzaresi quando decidono di farsi curare fuori città pensano a Giovanni Scambia. Forse anche a lui, che ogni estate da 47 anni torna puntualmente a Copanello, si potrebbe dare la cittadinanza onoraria.
E che dire di Carmine Donzelli, uno dei più grandi editori librai d’Italia, da sempre animato da un impegno civico fortissimo, anch’egli molto legato alla sua città d’origine. Lo stesso discorso si può fare con Attilio Zimatore, allievo di Natalino Irti, ordinario di diritto privato, avvocato, giurista e docente apprezzatissimo, da anni ai vertici della Luiss. Sono certo di averne dimenticati molti. E me ne scuso. Ma so che mi avete capito. Ricordare chi ha dato lustro alla città e chi continua a darlo, anche solo con i natali, è un modo per ricordare quelle qualità storiche di una città che non da oggi ma nei secoli (qualcuno ricorda Bernardino Grimaldi?) ha saputo creare classe dirigente e servitori dello stato. E’ un modo per dare una immagine diversa della città e, lasciatemelo dire, migliore di quella che è percepita. Ma non è la corda della vanità che voglio stuzzicare e non è neppure soltanto orgoglio. Se volete è anche qualcosa di più prosaico, è quel che si chiama marketing territoriale. Quello strumento, di cui, ad esempio, la Toscana è regina, che porta valore, promuovendone le eccellenze del territorio stesso.
E’ allora forse conviene farci un ragionamento. Dedicare ai nostri concittadini migliori una piazza, un ospedale, un tribunale, un museo, un premio e, appunto, una cittadinanza onoraria. Possiamo provare a ricordare alle generazioni future e a che ci guarda da fuori che nessuna città d’Italia ha un parco ricco di opere d’arte contemporanea come quello dell’ex Scuola Agraria. E poi, diciamolo, un uso sapiente della toponomastica e delle commemorazioni sono pratiche che non costano niente e invece danno risultati misurabili. Senza contare che la memoria è semplicemente un dovere civico, prima che un’opportunità.
Io ero tra quelli che gridavano e saltavano inneggiando a quel Massimé che sembrava una molla. Cantando “dirindindi, dirindindà” vivemmo grandi emozioni e grande gioie. Non la dimentichiamo quella stagione, ma ora è tempo di andare oltre. La parola Italia ha origine a Catanzaro. Noi siamo stati capaci soltanto di mettere un cartello prima della galleria del Sansinato. Altri sulla paternità di questo nome ci avrebbero costruito una storia e una narrazione epica (vedi Reggio Emilia col tricolore). Noi niente. Tant’è che nessuno lo sa che il nome della nostra patria viene dalle nostre parti. Vogliamo continuare così? O agli Abramo e ai Fiorita di turno occorre fare capire che la città vuole andare oltre?
Tratto da "Associated Medias"
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