
La coordinatrice regionale di Altragricoltura Calabria denuncia la crisi profonda del comparto: “Campi senza operai, costi insostenibili e un mercato che ci tradisce. L’Italia importa olio estero e svende la nostra dignità. Chiediamo tracciabilità vera, etichette trasparenti e regole uguali per tutti”.
09 novembre 2025 16:40Riceviamo e pubblichiamo l'appello di Luana Guzzetti, coordinamento regionale Altragricoltura Calabria olivicoltrice calabrese
"Doveva essere il momento della gioia e della speranza, la ricompensa per un anno di sacrifici culminato in un’estate di siccità estenuante . Invece, per la Calabria, una delle più grandi regioni olivicole d’Italia per superficie coltivata, la raccolta delle olive si è trasformata nell’ennesima, amara conferma di una crisi strutturale che sta mettendo in ginocchio migliaia di aziende. I campi restano desolatamente spopolati: mancano i lavoratori, i costi di produzione sono alle stelle e, sul versante opposto, il mercato tradisce chi produce onestamente.
Gli agricoltori calabresi sono stretti in una morsa finanziaria insostenibile. L’impiego di operai specializzati dotati di mezzi scuotitori arriva a costare fino a 150 euro l’ora, mentre la frangitura, l’atto finale della trasformazione, tocca i 20 euro al quintale. A questi si aggiungono gli oneri essenziali per la sopravvivenza della pianta e della filiera, aggravati dalle emergenze climatiche: gli oneri crescenti per l’irrigazione resa necessaria dalla crisi idrica, la concimazione organica, le complesse operazioni di potatura, la gestione del terreno e, non ultimo, l’aumento nel costo dei materiali come l’alluminio per l’imbottigliamento. Un salasso economico che si scontra violentemente con un mercato sempre meno disposto a riconoscere il valore del lavoro.
Il paradosso più doloroso si manifesta nel settore biologico. Nonostante gli investimenti e i rigidi protocolli di coltivazione, il mercato, in molti casi, non vuole nemmeno acquistare l’olio biologico, costringendo i produttori a svalutarlo. Cooperative e intermediari offrono di acquistarlo come se fosse convenzionale, a non più di 7,50 euro al chilo: una cifra che non copre i costi, offende la qualità e calpesta la dignità di chi ha scelto di investire nella sostenibilità e nella tracciabilità. Questo è un chiaro disincentivo a produrre qualità.
Questa offerta “da fame” avviene mentre l’Italia registra importazioni record di olio d’oliva: oltre 252 mila tonnellate nei primi mesi del 2025, con un incremento del 66% e, contemporaneamente, un crollo del valore medio d’acquisto. Gran parte di questo flusso proviene da Paesi come la Tunisia, dove i prezzi all’origine sono scesi a cifre irrisorie, come 2,80 euro al chilo.
L’Italia acquista, imbottiglia nei propri stabilimenti e sfrutta un vuoto normativo: l’etichetta della vergogna. Le norme europee permettono che l’origine estera sia scritta in piccolo, rendendola invisibile, mentre in grande campeggia la dicitura “imbottigliato in Italia”. Un inganno visivo e legale che sfrutta la percezione del Made in Italy e premia la speculazione a scapito del produttore onesto.
La radice del problema è chiara: una tracciabilità asimmetrica e una legalità di comodo. Mentre l’agricoltore italiano/calabrese è soffocato da controlli, registri e obblighi digitali, l’olio importato sfugge a un monitoraggio trasparente, mancando un registro pubblico che ne segua il percorso dal porto allo scaffale. Ciò alimenta un sistema ingannevole che confonde le carte e toglie valore al vero prodotto italiano, minando la fiducia dei consumatori e la sicurezza alimentare.
A questa dinamica internazionale si aggiunge il mercato invisibile dei social network, un vero e proprio “Far West” digitale. Pagine e profili vendono olio direttamente ai consumatori, spesso senza alcuna garanzia. Ci appelliamo alle Istituzioni:
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