L'avv Conidi Ridola: "Giustizia, persone e tecnologia: il processo come luogo di umanità"

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  18 novembre 2025 09:48

 di M.CLAUDIA CONIDI RIDOLA *

In un tempo in cui il dibattito sulla giustizia si concentra spesso sulle riforme, sui codici, sulle piattaforme digitali, rischiamo di dimenticare la dimensione più semplice e più complessa al tempo stesso: dietro ogni toga c’è una persona. Il magistrato non è un automa, non è un algoritmo, non è un ingranaggio di un sistema astratto. È un essere umano che cresce, che cambia, che affronta dubbi, limiti e responsabilità enormi. E la qualità della giustizia – oggi come ieri – dipende innanzitutto dalla qualità umana di chi la esercita.

Questa consapevolezza non è un orpello filosofico: è una verità che si impone ogni giorno nelle aule di giustizia. L’avvocato lo sa bene. Nel processo, non incontra soltanto la legge applicata, ma la persona che quella legge deve interpretare. Non soltanto il ruolo, ma la sensibilità, l’esperienza, la storia di chi è chiamato a decidere. Ed è da qui che nasce un primo, essenziale principio: giudice, pubblico ministero e difesa non sono tre funzioni isolate, sono tre persone che condividono – con prospettive diverse – la medesima missione, quella di avvicinarsi alla verità nel caso concreto.
Non è un invito a psicologizzare il processo: è un richiamo alla realtà.

I magistrati, come tutti noi, possono indossare “maschere caratteriali” che rispondono spesso alla necessità di sostenere un ruolo difficile. Ci sono giudici che appaiono severi, rigidi, persino freddi: talvolta è un modo per proteggere la propria vulnerabilità, per evitare che il coinvolgimento emotivo comprometta l’equilibrio richiesto dalla funzione. Altri sembrano affabili, aperti, quasi informali: e quella leggerezza, che a prima vista rassicura, può nascondere il bisogno di mantenere saldo il rigore decisionale. Questi tratti non sono difetti né pregi: sono umanità. E ricordarlo non è un modo per indirizzare il giudice, ma per riconoscere la complessità della funzione. Perché un magistrato non è – e non potrà mai essere – un burocrate del diritto: la sua responsabilità è interpretare la norma dentro la vita, non al di sopra di essa.

Accanto al giudice, però, anche l’avvocato sta attraversando un cambiamento radicale. Il processo civile, penale e amministrativo è ormai telematico: fascicoli digitali, atti informatici, udienze da remoto, algoritmi di gestione, scadenze automatizzate. L’evoluzione tecnologica ha portato indubbi vantaggi, ma ha anche aperto un rischio culturale profondo: trasformare l’avvocato in un mero tecnico, un operatore esperto di piattaforme più che di persone. Le intelligenze artificiali scrivono atti preliminari, generano schemi difensivi, individuano orientamenti giurisprudenziali in pochi secondi. Il professionista contemporaneo, travolto dalla velocità delle procedure, è tentato di adattarsi alla logica dell’efficienza, lasciando che la macchina faccia il lavoro intellettuale e limitandosi a un controllo formale. Ma la giustizia non è un workflow digitale. E l’avvocato non è – e non deve diventare – un ingegnere della lite.

Il vero pericolo non è la tecnologia in sé: è perdere di vista l’essenza umana del conflitto. Una causa non è mai soltanto un fascicolo da caricare, un documento da validare, una PEC da inviare. Dentro ogni processo ci sono angosce, speranze, paure, diritti lesi o negati, vite che chiedono di essere ascoltate. Se l’avvocato rinuncia a essere il tramite umano tra la storia del cliente e l’ordinamento, se accetta di diventare una figura puramente tecnico-procedurale, allora non è soltanto la professione a perdere identità: è la giustizia stessa a perdere significato. Per questo, oggi più che mai, va ricordato che la tecnica può rendere la giustizia efficiente, ma solo l’umanità può renderla giusta. Il processo – civile, penale, amministrativo – resta prima di tutto un luogo di relazione: ciascuno porta la propria competenza, ma anche la propria sensibilità, la propria capacità di ascolto, la propria etica. E la verità processuale emerge solo quando il dialogo tra le parti è autentico, rispettoso dei ruoli ma consapevole della reciproca umanità.

Alla fine, ciò che conta davvero non è la perfezione formale degli atti né la potenza degli strumenti digitali. Ciò che conta è ricordare che la giustizia riguarda persone, non piattaforme. E che ogni volta che entriamo in un tribunale – come giudici, avvocati o pubblici ministeri – dovremmo ripartire da qui: dalla persona prima del ruolo, dall’umanità prima della tecnica.

*Avvocato


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