L'avv Conidi Ridola: "Il nuovo art. 50 CDF ridefinisce il dovere di verità: responsabilità, limiti e missione del difensore"

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  11 novembre 2025 09:37

di M.CLAUDIA CONIDI RIDOLA *

La riforma del Codice deontologico forense, in vigore dal 1° novembre 2025, interviene in modo incisivo sull’art. 50 dedicato al dovere di verità. La nuova disciplina non si limita a ritoccare formule linguistiche, ma ridefinisce il perimetro della responsabilità dell’avvocato, chiarendo in modo inequivocabile che la funzione difensiva non può in alcun modo convergere con la falsificazione del processo.

Il difensore non deve introdurre nel procedimento prove, elementi di prova o documenti che sappia essere falsi. A questo divieto si affianca, oggi espressamente, quello di utilizzare materiale probatorio proveniente dal cliente qualora sia consapevole della sua falsità. Il legislatore deontologico supera così l’idea che il difensore risponda solo dell’introduzione dell’atto: la responsabilità si estende a tutto il ciclo di utilizzo del materiale falso, indipendentemente dal suo autore. La riforma introduce un obbligo attivo che rappresenta una delle novità più rilevanti: se l’avvocato apprende successivamente che la prova già depositata è falsa, è tenuto a non farne uso e, quando ciò confligge con la strategia difensiva, deve rinunciare al mandato. L’astensione dall’utilizzo di una prova mendace non è più un gesto di prudenza professionale, ma un dovere giuridico funzionale alla tutela dell’integrità del processo.

La violazione del dovere di verità non determina esclusivamente conseguenze disciplinari. Quando il difensore contribuisce consapevolmente all’introduzione o all’utilizzo di prove false, la sua condotta può assumere rilievo penale, integrando ipotesi di falso ideologico o materiale in atto pubblico, di concorso in false dichiarazioni o, nei casi più gravi, di calunnia. L’avvocato non è un mero intermediario neutrale: è un soggetto titolare di un ruolo pubblico, inserito all’interno del sistema di giustizia, e la consapevole alterazione della realtà processuale costituisce violazione non solo dei suoi doveri professionali, ma dell’ordinamento nel suo complesso.

La riforma amplia inoltre l’ambito informativo del difensore. Nelle istanze e richieste relative al medesimo fatto deve essere indicato ogni provvedimento già ottenuto, compresi quelli di rigetto. La norma mira a prevenire condotte elusive, ricorsi ripetitivi e incomplete rappresentazioni del quadro processuale che possano incidere sulla decisione del giudice. Il nuovo art. 50 riflette, nel suo insieme, un’evoluzione della concezione del ruolo dell’avvocato: da tecnico della difesa a presidio di legalità e correttezza del processo. Il difensore deve mantenere un equilibrio rigoroso tra l’interesse del cliente e la tutela dell’integrità della giurisdizione. L’avvocatura non è chiamata a vincere a ogni costo, ma a garantire che il processo rimanga luogo di verità, non di manipolazione. La professione forense impone, innanzitutto, coscienza, onestà, lealtà e probità. È una missione che trascende la tecnica e che si misura nella capacità del difensore di mantenere integra la propria condotta anche quando ciò comporta scelte difficili. La cartina di tornasole della correttezza non è soltanto professionale, ma umana: riguarda la qualità della persona prima ancora che del giurista. Chi oltrepassa consapevolmente i confini del proprio ruolo, utilizzando il processo come terreno di distorsione della realtà, smette di essere un professionista e diventa un dilettante che agisce a spese altrui. La giurisdizione non può permetterselo, e l’avvocatura non può tollerarlo.

*Avvocato


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