di IACOPO PARISI
A cinquantacinque anni dalla sua messa in onda sul Canale 2 della Rai, il film "La fine del gioco", opera d’esordio di Gianni Amelio, è tornato nel luogo che ne ospitò le riprese: l’Istituto Penale Minorile Silvio Paternostro di Catanzaro. La pellicola, realizzata nel 1970 e concessa da Rai Teche, è stata proiettata alla presenza dei giovani detenuti e di alcune delegazioni di studenti. L’evento è stato promosso dalla Fondazione Trame ETS, in collaborazione con l’Istituto Penitenziario Minorile.
Dopo la proiezione si è svolto un dibattito moderato dal giornalista Vinicio Leonetti, con interventi di Domenico Rafele, sceneggiatore e aiuto regista del film, del protagonista Luigi Valentino e della giornalista e scrittrice Annarosa Macrì. I saluti istituzionali sono stati affidati a Francesco Pellegrino, Direttore dell’Istituto Penale Minorile, Nuccio Iovene, Presidente della Fondazione Trame, e Maria Alessandra Ruberto, Procuratore della Repubblica presso il Tribunale per i Minorenni di Catanzaro.
Domenico Rafele ha raccontato come il film sia nato in un periodo in cui la Rai offriva straordinarie opportunità ai giovani che desideravano cimentarsi nella produzione cinematografica. L’idea alla base del racconto è di Gianni Amelio, e già in questo suo primo film si trovano i temi cardine della sua cinematografia. "La fine del gioco" non è un’opera sugli istituti penitenziari, ma sul contrasto tra la percezione della realtà e la realtà stessa.
Approfondendo la scena del film in cui si confrontano il giornalista e il bambino, Rafele ha spiegato: “Gianni voleva far capire il disagio di quei tempi, il contrasto tra i tempi del ragazzo e quelli del giornalista. Il giornalista vorrebbe raccontare la storia con un montaggio frenetico, mentre il ragazzo lo riporta alla distanza, alla lentezza di un vissuto che non può essere manipolato”.
Luigi Valentino, protagonista del film, ha rievocato con emozione i momenti delle riprese, sottolineando l'impatto dell’esperienza sulla sua vita.
Annarosa Macrì ha sottolineato come il film insegni il valore del rispetto dello sguardo altrui: “Il giornalista vede tante cose, ma quel bambino ne ha viste di diverse. Lo sguardo dell’altro va sempre rispettato, soprattutto quello dei bambini.” Questa riflessione si lega profondamente alla poetica di Amelio, che spesso ha lavorato con giovani attori, non perché voglia essere ricordato come il “regista dei bambini”, ma perché si sente naturalmente portato a raccontarsi attraverso di loro: “Ho un eccesso di paternità talmente grande che quando vedo un bambino e il suo sguardo si incontra col mio, io mi sento suo padre.”
Ha poi riportato alcune riflessioni di Gianni Amelio sulla Calabria, tratte da una recente intervista con lui. Il regista ha un rapporto complesso con la sua terra d’origine e ha raccontato la difficoltà di tornare nei luoghi della sua infanzia, segnati dall’assenza dei suoi genitori. Quando gli è stato chiesto come racconta la Calabria ai suoi nipoti, ha risposto che sono loro a raccontarla a lui, descrivendola come un posto bellissimo. Questo pensiero si lega alla sua convinzione che oggi siano i giovani a dover narrare la Calabria, non più la sua generazione. Questo passaggio di testimone segna il mutamento della narrazione nel tempo.
Nel film, il bambino protagonista prende in mano la sua vita quando si rende conto che il giornalista non comprende veramente la sua realtà: “Non hai visto le cose vere che succedono in questo collegio, non capisci il dialetto, non capisci l’essenza. Vuoi raccontare me?” È in quel momento che il ragazzo diventa padrone della propria storia. La scena è un monito per i ragazzi della comunità ministeriale e dell’Istituto Penale Minorile presenti alla proiezione. La realtà che li circonda può essere raccontata da altri, ma solo loro ne conoscono davvero il significato profondo.
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