Il delitto di Nicholas Green, il bambino statunitense ucciso nel 1994 in Calabria, è rimasto per anni uno dei casi più controversi della cronaca giudiziaria calabrese. Una storia di dolore, dubbi giudiziari e richieste di verità che continua a suscitare interrogativi.
Nel 1995, la Procura di Vibo Valentia mette sotto indagine Francesco Mesiano, allora ventiduenne, e Michele Iannello, ventisettenne, entrambi originari di Mileto (Vibo Valentia), accusandoli di essere i responsabili dell’omicidio del piccolo Nicholas, avvenuto sulla Salerno-Reggio Calabria durante un tentativo di rapina ai danni della famiglia Green. Il processo si apre due anni dopo, nel 1997, presso la Corte d’Assise di Catanzaro, che però assolve i due imputati per insufficienza di prove.
Ma la vicenda non finì lì. L’anno successivo, nel 1998, la Corte d’Assise d’Appello di Catanzaro ribalta il verdetto, condannando Mesiano a 20 anni di reclusione e Iannello, ritenuto l’esecutore materiale dell’omicidio, all’ergastolo. La condanna venne poi confermata in via definitiva dalla Corte di Cassazione, chiudendo, almeno formalmente, il capitolo giudiziario del caso.
Nonostante la condanna, entrambi gli imputati hanno sempre dichiarato la propria innocenza. Michele Iannello, in particolare, ex affiliato alla ‘ndrangheta, negli anni successivi decide di collaborare con la giustizia, confessando vari delitti legati all’organizzazione criminale. Tuttavia, nonostante la sua collaborazione, ha continuato a professarsi innocente riguardo al delitto di Nicholas Green, arrivando persino ad accusare il proprio fratello di essere il vero responsabile dell'omicidio.
Le sue rivelazioni portarono la Procura della Repubblica di Vibo Valentia a riaprire un’inchiesta sul caso, ma l’indagine si concluse con l’archiviazione, lasciando ancora una volta la vicenda avvolta da un alone di mistero.
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