di CARLO MIGNOLLI
Il Teatro Politeama di Catanzaro accoglie Heroes, l'omaggio a David Bowie firmato da Paolo Fresu, trombettista e flicornista tra i più grandi protagonisti della scena jazz internazionale, in scena giovedì 24 ottobre alle ore 21:00. Al suo fianco, una formazione d’eccezione che vede Petra Magoni alla voce, Filippo Vignato al trombone ed elettronica, Francesco Diodati alla chitarra, Francesco Ponticelli al contrabbasso e Christian Meyer alla batteria.
Lo spettacolo, inserito nella XXII edizione del Festival d’Autunno, ideato e diretto da Antonietta Santacroce, esplora l’universo visionario di Bowie intrecciandolo con le sonorità del jazz contemporaneo e dell’improvvisazione. Un incontro tra linguaggi, mondi e sensibilità artistiche che restituisce nuova vita a brani iconici come Life on Mars, Space Oddity e This is Not America.
Abbiamo parlato con Petra Magoni, voce magnetica e interprete raffinata, per scoprire come si affronta il mito di Bowie con rispetto, libertà e un pizzico di audacia jazzistica.
L’INTERVISTA
Petra, “Heroes” è un omaggio a David Bowie, ma anche un viaggio nel suo universo musicale e umano. Qual è stato il primo contatto emotivo o artistico che hai avuto con la sua musica?
«In realtà è stata una cosa abbastanza collettiva, perché tutti noi, forse peccando di un pizzico di presunzione, ascoltando distrattamente alla radio le canzoni di Bowie, le abbiamo sempre considerate dei brani pop abbastanza facili. Quindi, all’inizio, quando abbiamo portato per la prima volta questo concerto, lo abbiamo un po’ sottovalutato. Perché? Perché nel ’69 Bowie fece la sua prima apparizione in Italia, a Monsummano Terme, vicino Montecatini, in Toscana, dove si teneva un concorso per voci nuove europee. Avevamo avuto solo un giorno di prova, tutti un po’ scialli, come si fa nel jazz. Invece poi ci siamo trovati davanti a dei problemini niente male. È stata comunque una serata bellissima, perché ciascuno di noi, con la grande esperienza che ha, ha tirato fuori il meglio di sé, e sono nate idee che a tavolino non sarebbero mai venute. Poi ci siamo detti: “No, questo progetto adesso lo sistemiamo, gli diamo una quadratura”, naturalmente con spazi improvvisativi, ma lavorando sul materiale che era venuto spontaneamente nel 2019. Poi è arrivata la pandemia, abbiamo registrato il disco e fatto diversi tour, sia in Italia che all’estero: siamo stati a Bucarest, a Tirana, in Spagna, in Germania… È un progetto che ha girato abbastanza, anche se non tantissimo, perché siamo in sei e incastrarci tutti non è semplice. Per me è stato un po’ un tornare alle origini: le mie radici musicali sono nella musica antica e nel canto gregoriano, ma intorno ai vent’anni, con quell’energia tipica dell’età, sono entrata in un gruppo rock».
Quindi qualcosa che avevi già sperimentato in passato.
«Sì, sì. Avevo voglia di libertà, ma non solo nella voce: anche nel corpo, nel movimento, nel correre, saltare, fare un po’ la rockstar. Infatti con questo gruppo gioco a fare la rockstar».
Quando Paolo Fresu ti ha proposto di partecipare a questo progetto, qual è stata la tua prima reazione? Accennavi prima alle difficoltà iniziali: ha avuto qualche timore nell’affrontare un repertorio così iconico, oppure è stata pura curiosità?
«Eravamo tutti piuttosto incoscienti, vedendolo col senno di poi. Con Paolo avevo già fatto un paio di cose, tra cui un concerto con l’Italian Jazz Orchestra, dove eravamo i due solisti su un repertorio di Doris Day. È stato un concerto stupendo. La moglie di Paolo, Sonia, quando lui si stava scervellando per trovare una voce per questo progetto su Bowie, gli ha detto: “Chiama Petra”. Effettivamente, qualsiasi voce maschile avrebbe avuto un confronto forse troppo diretto. Invece, così, restano le canzoni di Bowie ma in una versione completamente diversa anche dal punto di vista vocale. Lui ha seguito il consiglio della moglie, mi ha chiamata e io sono stata felicissima. Anche perché, quando suono con questo gruppo, mi sembra di avere una Formula 1 sotto tra le mani! Dopo quel primo concerto abbiamo sistemato le cose che non avevano funzionato, o che avevano funzionato per caso. È stato un lavoro importante, perché nel jazz a volte si dice: “Sì, quella canzone la conosco, l’ho sentita tre volte…”, e invece no: ci siamo resi conto che non era affatto così. È stata una lezione anche di umiltà. Ci troviamo molto bene insieme: io non potrei mai suonare con qualcuno con cui non vado d’accordo. Anche al di là del concerto, compresi i tecnici, c’è una bellissima atmosfera, piena di divertimento, battute, cose simpatiche. Poi, certo, arriva il momento del concerto e si entra nella concentrazione, ma credo sia fondamentale, per la coesione di un gruppo, avere questo tipo di approccio».
A proposito di questo lavoro collettivo: in che modo avete costruito gli arrangiamenti con Fresu e gli altri musicisti?
«Nel primo live ognuno ha messo del suo un po’ a caso, come capita. Poi, in studio, c’è stata una grande svolta grazie a Francesco Ponticelli, che ha ripreso in mano il basso elettrico dopo anni di contrabbasso. Ha trasformato moltissimi brani proprio grazie a quel suono: usa il contrabbasso solo in Life on Mars, che facciamo in trio con chitarra, contrabbasso e voce. Questo uso del basso - e noi per primi non sapevamo che lo suonasse così bene! - ha dato l’input per tante idee nuove. Tutto questo è arrivato poi, appunto, in studio».
Qual è stato il brano più difficile da reinterpretare vocalmente, e quale invece ti ha dato più libertà o piacere nel canto?
«Devo dire che mi piacciono tutti. Mi piace Let’s Dance, che facciamo verso la fine del concerto, ed è un brano dove saltiamo tutti per aria. Mi piace molto Space Oddity: ho un radiomicrofono, mi muovo tra il pubblico, a volte lo spavento anche (ride), e faccio queste cose “sceniche” che in altri progetti non sarebbero appropriate. Qui invece abbiamo un gruppo che pesta come dei dannati, e io salto, zompo, vado in mezzo alla gente… È molto divertente giocare a fare la rockstar».
Nell’esecuzione dei brani, hai scelto di mantenere un approccio più fedele all’emozione originaria dei brani o di portarli completamente nel tuo mondo interpretativo?
«Sinceramente, adesso che ci penso, non mi ricordo neanche più gli originali! Nel senso che i brani si sono trasformati molto. C’erano delle idee nate per caso nel 2019, e poi le abbiamo sviluppate, fatte crescere, dando loro un marchio nostro».
Parlando di David Bowie, lui è stato un artista capace di trasformarsi continuamente senza mai perdere la sua autenticità. Secondo te qual è la chiave della sua immortalità artistica?
«Lui era anche un esteta. Ho visto la mostra che poi è arrivata anche in Italia: la vidi a Londra appena uscita. Quello che ci ha turbato di più, venendo dal jazz e quindi con una certa leggerezza (non superbia, ma leggerezza), è stato scoprire un personaggio che ha fatto di sé stesso un’opera d’arte - del suo corpo, dei suoi abiti, delle sue tematiche. Spesso legate all’andare oltre l’orbita terrestre, all’esplorare altri mondi, con esiti positivi o negativi. Questo suo essere spesso legato all’“altrove”, e al tempo stesso creare una musica che all’apparenza sembrava semplice ma non lo era affatto, credo sia la chiave della sua grandezza».
Per concludere, immaginiamo che Bowie fosse in platea la sera dello spettacolo. Cosa speri che penserebbe ascoltandovi?
«Mi piacerebbe che salisse sul palco e facesse un brano con noi, magari Life on Mars, che nel concerto facciamo in versione ballad. E sì, forse si adattarebbe lui alle nostre versioni. Io farei dei ricami intorno alla sua voce, senza imitarlo, ma lasciandolo fare il suo. Oppure potremmo ispirarci al suo ultimo disco, quello con i grandi jazzisti newyorkesi: l’ultimo video, dove appare quasi come una mummia, è quasi disturbante… anche lì ha voluto rendere perfino il momento della sua morte un’opera d’arte».
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